La Stampa, 21 marzo 2024
"I miei cuginetti prigionieri di Hamas ma dico no al cessate il fuoco"
I volti, le immagini di Ariel e Kfir, un anno compiuto in prigionia, sono diventate i simboli del massacro del 7 ottobre e insieme la ferita aperta che rappresentano nella società israeliana i più di 130 ostaggi ancora nelle mani di Hamas e degli altri gruppi armati all’interno della Striscia di Gaza. La ferita del dilemma morale: qual è il prezzo per riaverli a casa? Ma anche lo scollamento sempre più netto tra la fermezza di Netanyahu nel continuare le operazioni militari nella Striscia e l’ondata di proteste che ogni settimana con più forza continua a chiedere le sue dimissioni e un accordo che consenta se non la liberazione di tutti gli ostaggi, almeno l’ottenimento di una lista dei vivi e dei morti da parte di Hamas.L’ultima pausa alle operazioni che ha consentito la liberazione degli ostaggi risale ormai alla fine di novembre. Ariel e Kfir Bibas sono gli unici due minorenni a non essere stati liberati. Con loro, il 7 ottobre, erano stati rapiti dal kibbutz di Nir Oz anche il padre Yarden e la madre Shiri. Hamas, a novembre aveva diffuso la notizia, non verificata, della loro morte a seguito di un attacco israeliano a Khan Yunis. Hamas ha poi diffuso un video che mostra Yarden Bibas mentre viene informato della morte dei suoi familiari. Nel video, sempre di fine novembre, si vede l’uomo rivolgersi direttamente a Netanyahu: «Bibi, hai bombardato la mia famiglia, era tutto quello che avevo nella vita, portali a casa perché siano sepolti in Israele, ti scongiuro». La notizia della morte della donna e dei bambini non è mai stata confermata da Israele. A metà febbraio, con il consenso della famiglia, l’esercito israeliano ha diffuso un video catturato dalle telecamere stradali di Khan Yunis, è delle ore immediatamente successive al rapimento e mostra Shiri Bibas a piedi scalzi, con un lenzuolo tra le braccia, al cui interno, presumibilmente giace il piccolo Kfir. Intorno a loro uomini armati che li scortano.Yossi Schneider è un cugino di Shiri Bibas. Fa parte anche lui del Forum per la liberazione degli ostaggi. Si presenta all’incontro con La Stampa stringendo tra le mani le fotografie dei bambini e della donna. «Il latte di Kfir era ancora nel biberon quando sono entrato in casa pochi giorni dopo il loro rapimento. Cosa in questo volto di bambino sdentato rappresenta un nemico? Cosa c’è di spaventoso nel viso di mia cugina, un’insegnante di asilo, da renderla nemica di Hamas. Era una donna modesta e sobria». Una madre che stenta a riconoscere nel video diffuso a febbraio, se non nella cura con cui stringe il lenzuolo che forse nasconde un bambino rapito a otto mesi che ha compiuto un anno in prigionia. Yossi Schneider è un uomo dal volto segnato, duro, come dure sono le sue parole. Non si concede un solo momento di commozione, mentre parla della sua famiglia, per parlare di tutte le centotrenta che ancora aspettano risposte.Signor Schneider, ha prove di vita o morte dei bambini e di Shiri?«No, nessuna. Il video diffuso a febbraio è disturbante. Non è recente e non sappiamo se Kfir sia con lei. Riconosco nel suo gesto di accudimento, nelle braccia intorno al lenzuolo, l’amore di una madre ma non siamo sicuri che il piccolo fosse con lei. Speriamo che li abbiano tenuti tutti e tre insieme ma questa è l’unica e ultima notizia che abbiamo su di loro, cioè che siano arrivati vivi nella Striscia di Gaza. L’unica certezza che abbiamo è che siano scomparsi dalle nostre vite il 7 ottobre. Non abbiamo avuto risposte né dal governo, né dagli altri ostaggi liberati, a novembre nessuno sapeva niente dei bambini».Lei è parte attiva del Forum per la liberazione degli ostaggi, e delle proteste di questi mesi.«Parlo e agisco da essere umano prima che da parente di questi bambini. Il fatto che un bambino di otto mesi sia stato rapito così e il mondo non gridi per liberarlo mi lascia sdegnato. Se permettiamo che il destino degli ostaggi diventi un argomento periferico di questa guerra, cosa verrà dopo? Il destino degli ostaggi è ormai dimenticato in un gioco di contrattazione che sta mostrando però l’incapacità di trattare delle parti in causa. Nessuno parla più dei rapiti perché nessuno ha una soluzione. Per questo siamo costretti a gridare in piazza. Perché in questi cinque mesi abbiamo capito che il governo e i negoziatori tacciono sulle persone che amiamo, perché nessuno riesce a trovare una soluzione. Il silenzio del mondo è segno di ipocrisia e lamenta anche una incapacità di trattare con organizzazioni come Hamas».Quando dice ipocrita a cosa pensa?«L’ipocrisia sta nel fatto che le organizzazioni radicali vanno capite, e gestite quando sono agli albori. Il silenzio su Hamas ha fatto comodo a molti, anche qui. Poi, nel silenzio e nel disinteresse generale, Hamas è cresciuto e il 7 ottobre ne è stata la tragica conseguenza. Tutti sapevamo cosa stava accadendo, quanto stessero crescendo. Scegliendo il silenzio e l’inerzia, i governi hanno segnato un punto di non ritorno, e quel punto è il volto di un bambino di otto mesi, mio nipote Kfir. Per cui oggi dovremmo combattere e sfamare Hamas allo stesso tempo. Dico No, non è concepibile».Lei ha una posizione distante dalla maggioranza delle famiglie del Forum sul cessate il fuoco, e la aveva anche a novembre, durante l’ultima pausa che ha consentito la liberazione degli ostaggi. È contrario. Perché?«Sono contrario al cessate il fuoco, anche se questo potrebbe garantire la liberazione di qualche ostaggio perché significherebbe dare ad Hamas la possibilità di sopravvivere più a lungo. A novembre abbiamo sperato che al rilascio dei rapiti sarebbe seguita una trattativa per liberare gli altri. Sono passati quattro mesi, non è accaduto. Ammettiamo che si lavori per un cessate il fuoco, e ammettiamo che liberino altri trenta, quaranta persone. Cosa accadrebbe agli altri novanta, ammesso che siano ancora vivi? In quanto tempo li rivedremo? Sei mesi da oggi, un anno, o mai più, senza sapere se siano vivi. Questa non è una guerra tra Stati e non stiamo parlando di uno scambio di prigionieri. I miei nipoti non sono prigionieri di guerra, sono bambini rapiti. Perciò non si vince parlando con chi ce li ha strappati. Si vince affamandoli. Perciò non voglio un cessate il fuoco, voglio che escano dai tunnel e si inginocchino di fronte a noi implorandoci di fermarci e che, implorandoci, ci consegnino le persone ancora vive e i corpi dei morti».Lei sa bene che essere contrario al cessate il fuoco espone gli ostaggi e aggrava la situazione già tragica dei civili nella Striscia di Gaza.«E se non li rilasciassero? Ammesso che siano vivi. Se ne liberassero uno solo, tenendo il più piccolo per continuare a trattare. So che il nostro caso è diverso dagli altri, sono gli unici bambini ancora nelle loro mani, ma siamo cento famiglie e nessuna vale più delle altre. Ci guardiamo ogni giorno negli occhi, condividiamo un sentimento che capisce solo chi lo prova: non sapere se chi amiamo è vivo o morto. Ma so che un altro cessate il fuoco darebbe più potere ad Hamas, non meno. E quando sento le pressioni degli alleati, degli Stati Uniti, per sfamare questa gente, lo trovo intollerabile».I bambini sono bambini ovunque.«I bambini sono bambini ovunque, è vero. Ma chiedere a Israele di rallentare la guerra è segno di debolezza e codardia, è una presa in giro. Gli Stati Uniti ci chiedono di evitare l’operazione a Rafah ora senza un accordo sugli ostaggi perché non sono in grado di raggiungerlo. E io dovrei preoccuparmi del Ramadan, perché la gente muore di fame? Non mi interessa niente del Ramadan. Vogliono fermare la guerra? Mandino a casa i sopravvissuti e i corpi. E poi capiremo come aiutare “i fantastici civili di Gaza”. Io ho smesso di considerarli civili».Il dolore che prova merita un rispetto infinito, ma sente di poter far coincidere i miliziani di Hamas con la popolazione che muore di fame a Gaza?«Io ho smesso di considerarli civili». —