Domenicale, 17 marzo 2024
A caccia dei ristoranti giapponesi autentici
Nel 2006 il governo giapponese ha creato la cosiddetta «polizia del sushi» incaricata di scovare i falsi ristoranti giapponesi nel mondo. Una squadra di ispettori in incognito aveva visitato ottanta ristoranti a Parigi con il risultato di «denunciarne» circa un terzo per «crimini contro l’autenticità». Ovviamente l’azione degli ispettori giapponesi non ha avuto alcun effetto evidente, se non quello di contribuire all’ilarità generale.
Questo episodio, riferito dal giornalista Dan Hong in un articolo su «Vittles», fa parte della complicata arte della «gastrodiplomazia» attuata da molti Paesi. I motivi che hanno portato il governo giapponese a intraprendere i controlli li conosciamo bene anche noi italiani, infatti il ministro in carica aveva dichiarato di voler contrastare la diffusione della cucina giapponese fatta da cinesi, coreani e filippini, allo scopo di proteggere la cultura gastronomica nipponica. Evidentemente dall’altra parte del globo soffrono del japanese sounding, almeno quanto noi dell’i talian sounding.
L’azione non si è però limitata alla repressione – per così dire – ma ha messo in campo risorse economiche per il sostegno dei ristoranti giapponesi all’estero a cui è richiesto di svolgere il ruolo di ambasciatori dell’autentica cucina nipponica. Esistono esempi virtuosi anche di altri Paesi come la Thailandia, la Corea del Sud e la Malesia che hanno investito su chef, ristoranti e scuole di cucina per fare conoscere all’estero la cucina locale.
In alcuni casi i risultati sono stati sorprendenti. La Thailandia, vera pioniera in questo campo, in pochi anni ha visto triplicare il numero dei ristoranti thai nel mondo, contribuendo anche a modificare la reputazione del paese: da meta del turismo sessuale a paradiso gastronomico. In particolare le regioni del Sud Est asiatico sono in prima linea per esportare le proprie cucine nei punti strategici del globo (verso i paesi del G7, ad esempio) come strumento diplomatico, puntando tutto sul soft power culinario.
Anche per noi italiani, invece di andare a caccia di trasgressori, come aveva ventilato il Ministro Lollobrigida esattamente un anno fa, sarebbe forse più lungimirante investire all’estero per rafforzare la nostra posizione.