Domenicale, 17 marzo 2024
Il vino nelle anfore
l Futuro è antico! Una metafora che veste in modo perfetto le anfore, contenitori di vinificazione delle uve, sempre più alla ribalta nella narrazione del vino. «Futuro» perché molti produttori, enologi, sommelier, consumatori evoluti, le trovano sempre più nelle cantine (o anche fuori, interrate) e al centro della produzione.«Antico» perché il vino in anfora c’è nato. A quanto pare, furono proprio i vasi vinari caucasici, le Kvevri o Qvevri. ad ospitare la prima vinificazione, risalente a 6.000 a.C nell’attuale Georgia, dove, nei siti archeologici di Shulaveri Gora e Gadachirli, sono stati rinvenuti frammenti di otto giare in terracotta con tracce, che riportano al vino.L’unico Paese dove il futuro e l’antico delle anfore si fondono da sempre, è la Georgia perché lì non c’è mai stata, nel tempo, soluzione di continuità di produzione con le giare per la vinificazione, al punto che tale metodo ha avuto il riconoscimento dell’Unesco, come Patrimonio Immateriale dell’Umanità, così riconosciuto: «il metodo di vinificazione Qvevri prende il nome dal particolare vaso di terracotta ovale, in cui il vino fermenta ed è riposto nei villaggi e nelle città di tutta la Georgia». La tradizione gioca un ruolo vitale nella vita di tutti i giorni e nelle festività, insieme al vino e alle vigne frequentemente evocate nelle tradizioni orali e nelle canzoni, costituisce una parte inseparabile dell’identità culturale delle comunità georgiane. La conoscenza di questo patrimonio è stata tramandato dalle famiglie, dai vicini e dagli amici, tutti coloro che partecipano alle attività condivise di vendemmia e vinificazione». Un giusto riconoscimento dell’Unesco perché ha permesso ai georgiani di farne un simbolo di identità nazionale, così come dovrebbe venire riconosciuta la candidatura della «cucina italiana tra sostenibilità e diversità», di certo più identitaria per gli italiani, rispetto alla «dieta mediterranea», accettata a suo tempo.
Dalla Georgia, dove i Qvevri hanno una capacità, che varia tra i 100 e i 4000 litri (i più diffusi si attestano ai 1000 litri), le giare si sono diffuse ovunque nei paesi vinicoli, con una storia più antica come quella delle Tinajas in Spagna e anche in Italia, dove la produzione e l’utilizzo è più recente, soprattutto all’Impruneta; siamo nel territorio chiantigiano, assai noto per la produzione di cotto fiorentino per pavimenti e articoli di artigianato con l’argilla.Qui la prima azienda a costruire anfore per la vinificazione è stata la Fornace Artenova nel 2008, seguita dalla Fornace Manetti Gusmano&figli, di proprietà della famiglia Manetti, di cui fa parte Giovanni, presidente del Consorzio Chianti Classico, utilizzatore di anfora in alcuni dei suoi pregiatissimi vini.
La produzione di questi contenitori non è solo in Toscana, si è sviluppata anche altrove: in Trentino con la Tava di Mori e, in Umbria a Città di Castello con la Sirio.
Il primo tentativo di utilizzo di anfora in Italia è stato di uno dei più prestigiosi produttori italiani: Josko Gravner di Oslavia nel Collio Friulano, al confine con la Slovenia. Siamo intorno a metà degli anni’90, dopo una povera vendemmia Josko sperimenta la vinificazione in un’anfora fornitagli da un amico georgiano.
I risultati sono stati sicuramente incoraggianti perché Gravner compie poi un viaggio in Georgia (non più parte dell’Unione Sovietica), e fa ritorno con una grande anfora caucasica di terracotta integrale, così, nel 2001, sperimenta con successo un metodo «rivoluzionaria» in Italia, rinunciando all’acciaio e alle barrique, con le uve calate nelle anfore con le bucce.
Questa tecnica della fermentazione con le bucce, sia nei bianchi, sia nei rossi, ha avuto un seguito notevole nel panorama vinicolo italiano con i vini cosidetti «naturali». Nell’anfora interrata di Gravner prendono vita due importanti vini, dopo un passaggio in botti grandi: il bianco Breg (blend di Sauvignon, Pinot grigio, Chardonnay e Riesling) e il rosso Breg. 100% di uve pignolo. La trasformazione della produzione di Gravner continua poi nel 2012, quando ha deciso si espiantare i vitigni internazionali e continuare solo con vitigni autoctoni: ribolla per il vino bianco e pignolo per il rosso.
Nell’altro capo dell’Italia, in Sicilia, l’azienda agricola Cos (di Giampiero Cilia, Cirino Strano e Giusto Occhipinti), nel 2000, comincia ad utilizzare le anfore spagnole, le Tinajas, per la fermentazione ed il successivo affinamento del Cerasuolo di Vittoria, con eccellenti risultati.
Come l’acciaio, l’argilla è un materiale neutro che non cede sostanze aromatiche al vino durante l’affinamento, per questa valenza mantiene intatta l’uva, offrendone così la più pura interpretazione. Come il legno l’anfora di terracotta possiede una porosità che deriva dall’impasto dell’argilla e dalla sua temperatura di lavorazione: minore è il grado di cottura, maggiore sarà la capacità di scambiare l’ossigeno con l’esterno arricchendo il vino di gusto e colore.
Dagli anni 2000 l’utilizzo delle anfore è notevolmente cresciuto e si è sviluppato in quasi tutti i territori vocati alla viticoltura per i suoi apporti positivi alla produzione.
Tra gli antisegnani: Alessandro Sgaravatti di Castello di Lispida a Monselice, l’azienda agricola Foradori, a cui poi hanno fatto seguito tra gli altri: Petrolo, Frank Cornelessen, Pareschos, Francesco Cirelli, Elena Fucci, Corte Sant’Alda, Castello di Rampolla, Le anfore di Elena Casadei (con 3 aziende a Rufina, a Suvereto, a Gergei Olianas), l’azienda agricola romagnola “la Ciola”, del noto Chef, Carlo Cracco.
Il successo recente delle anfore succede in Italia al grande boom delle barrique, da metà degli anni’80, dopo una conferenza a Firenze, a Palazzo Antinori, del grande enologo russo-americano, Andrè Tchellistcheff, uno dei principali artefici dello sviluppo della Napa Valley, che ne illustrò i benefici.
Il ricorso in massa alle barrique, provocato dalla domanda del vino internazionale (soprattutto americana) e dallo scatenarsi di una vera e propria moda nel mercato interno, ha generato purtroppo, oltre a vini rossi eccellenti, anche molti «vini dei falegnami» (così da me definiti). Il successo ha fatto sì che la scritta in etichetta di barricato promuovesse un aumento del prezzo di vendita, quasi fosse una qualità aggiunta e non mero strumento di produzione.
Speriamo che le anfore, oggi tendenza di nicchia, non diventino una moda. Così è se mi piace!