Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 17 Domenica calendario

Patti Smith in Italia nel 1979

Il rock è stato la musica più esaltante del Novecento ma a noi toccano o il suo revival o i suoi cascami e – nell’idealizzazione del passato che infesta il nostro presente – si perde la complessità che caratterizzava la sua stagione d’oro. È una delle prime riflessioni che tocca il lettore di Rumore rosso, il libro che Goffredo Plastino (musicologo italiano da anni trapiantato in Uk, all’Università di Newcastle) ha dedicato al passaggio di Patti Smith in Italia nel 1979. I due concerti a Bologna e a Firenze della cantante, mitizzati negli anni da chi c’era (e anche da chi non c’era) rappresentano infatti uno snodo storico di grande rilevanza per comprendere sia il rock e i significati che ha assunto nel nostro Paese, sia l’articolato rapporto che quei significati intrattenevano con la cultura di sinistra.
Da un lato, l’arrivo di Patti Smith coincide con il ritorno del pop internazionale in Italia dopo una fase di stop dovuta alla diffusa violenza (altro che pace e amore: all’epoca sui palchi si tiravano le molotov, oggi dai tornelli non passa neanche un tappo di plastica) e apre la stagione dei megaeventi negli stadi. Dall’altro, negli anni del riflusso, segna la simbolica fine di una stagione di fermenti culturali e politici che si era aperta con il ’68. In effetti, gli eventi ricostruiti da Plastino seguono l’ammissione da parte del Pci della propria difficoltà nell’“entrare in contatto con grandi masse della gioventù”, come dichiara Enrico Berlinguer al Comitato centrale nel 1979. E così il più grande partito comunista da questo lato della cortina di ferro si butta nella gestione dei grandi eventi: in estate supporta il tour Banana Republic di Lucio Dalla e Francesco De Gregori, in settembre ingaggia Patti Smith per la Festa dell’Unità. Il libro – rigoroso nell’impianto, ma al contempo leggero per come affastella documenti e voci, stampa dell’epoca e memorie di oggi – sembra a tratti trasformarsi nel romanzo picaresco dei tardi 70 italiani, con una rockstar americana catapultata in mezzo a dinamiche troppo complesse per essere comprese e gestite tanto da lei quanto da chi sta contribuendo ad alimentarle. «A Bologna e Firenze vanno in scena non solo un gruppo di musicisti e una cantante rock, ma anche uno scontro sull’egemonia politica e culturale», scrive Plastino, ed è uno scontro di tutti contro tutti, una specie di battle royale dei rapporti fra politica e cultura in Italia – in un momento storico, oltretutto, in cui il rock stava definitivamente reclamando il suo posto nella “cultura” e in cui la politica si allontanava definitivamente dal cuore della vita sentimentale e civile degli italiani e delle italiane. I partiti di sinistra dell’arco istituzionale si scontrano con il movimento sul senso di organizzare eventi musicali collettivi. Il Pci si scontra con la Dc su come gestire i concerti e le politiche giovanili, e con se stesso su come dare un senso politico a un evento che è inserito nel sistema di mercato. Ma è la stessa Patti Smith ad alimentare le interpretazioni divergenti. Dal 1975 (anno di uscita del primo album Horses) è stata dapprima celebrata come una versione al femminile di Bob Dylan, poi assorbita nel nascente movimento punk per diventare infine “la poetessa del rock”.
Nel 1979 l’Italia l’accoglie come nessun altro Paese, e lei ricambia: omaggia Pasolini, dice di sentirsi vicina a Michelangelo e ad Anna Magnani, ma anche a Giovanni Paolo I. Prestigiosi editori pubblicano i suoi versi. Il primo numero della rivista «Alfabeta» la consacra in copertina, dove il suo nome appare insieme a quelli di Umberto Eco, Maria Corti e Renato Barilli. Al grido di “Patti è nostra” l’appartenenza politica e culturale di una cantante viene allora rivendicata più o meno da tutti, e durante il suo passaggio italiano più o meno tutti sembrano incrociarne la strada, apprezzarla o dissociarsi da lei: Isabella Rossellini la intervista girando per i canali di Venezia su una barca, Bifo Berardi le dice «ti odio» durante una conferenza stampa, Achille Occhetto la accoglie a nome del partito insieme a una delegazione in giacca e cravatta del Konsomol, ospite d’onore allo stadio di Firenze (non apprezzeranno particolarmente il concerto). E poi ci sono Luigi Nono (trascinato dalla figlia), Roberto Roversi, gli Skiantos, Stefano Benni, Michele Serra, Alberto Arbasino, Red Ronnie, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Lotta continua e Autonomia operaia. Lo scontro è tanto sui giornali e sulle riviste quanto sul prato dello stadio: gli altoparlanti diffondono la voce registrata di papa Luciani e una pioggia di zolle d’erba bersaglia la cantante. Poi parte l’inno nazionale americano, e nella folla è «la fine del mondo».
«È stato il concerto più bello della mia vita», commenterà Patti Smith al termine. Poco dopo scioglierà il gruppo. Tornerà a esibirsi dal vivo solo nel 1995. Davvero, non c’è più il rock di una volta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Goffredo Plastino
Rumore rosso. Patti Smith
in Italia: rock e politica
negli anni settanta
Il Saggiatore, pagg. 306, € 25