Domenicale, 17 marzo 2024
Lucy, la nostra antenata bipede di tre milioni di anni fa
guardarsi allo specchio con la specie estintaPaleoantropologia. Giorgio Manzi racconta la storia prima della storia: la nostra antenata Lucy, di tre milioni di anni fa, e i Neandhertal con i quali confrontarci per capire meglio chi fossero loro e chi siamo noiGiorgio ManziEccoci di nuovo… Parliamo di Lucy, la nostra antenata bipede di oltre 3 milioni di anni fa: lo scheletro fossile rinvenuto in Etiopia nel 1974, di cui celebriamo quest’anno i cinquant’anni dalla scoperta e che rappresenta un’icona per la scienza delle nostre origini. E parliamo di altre storie… dal tempo profondo. Quelle dei Neanderthal, ad esempio. Soprattutto, sentiamo la voce degli alieni, che ci portano nel passato lontanissimo, grazie ad alcuni manoscritti ritrovati fra macerie pericolanti, e ci offrono una ricostruzione «archeologica» del nostro presente. A loro, qui, la parola.
Nostra Signora Garante dell’Universo, con la presente sottoponiamo a Voi i manoscritti che sono stati rinvenuti nel territorio in esplorazione. Li riportiamo qui, integralmente. Erano fra macerie pericolanti – ormai quasi inghiottite da una rigogliosa vegetazione, popolata da insetti e creature selvagge – ma ora sono nelle nostre e nelle Vostre mani. Come l’Eccellenza Vostra potrà vedere, si compongono di una decina di storie, che rappresentano la narrazione di un tempo arcano, remoto e antichissimo, chiamato «preistoria».
Riteniamo che i documenti ritrovati dimostrino chiaramente che le forme di vita del pianeta Terra avessero ormai raggiunto un grado sufficiente di consapevolezza intelligente e di comprensione della realtà, avendo inteso – seppur fra vari tentennamenti, inciampi, errori e ripensamenti – il fenomeno dell’evoluzione. In sintesi, possiamo affermare che quelle creature disponessero appieno dei seguenti requisiti: i) conoscenza scientifica di sé; ii) comprensione razionale delle origini e della loro natura di esseri viventi; iii) identificazione del posto occupato nella Natura e nella Storia naturale. Tuttavia, dobbiamo aggiungere una nota finale dal sapore amaro. Stando a quanto ci è dato da intendere, dopo aver conseguito questi brillanti risultati, le creature intelligenti del pianeta Terra dovettero causare – esse stesse, per quanto inspiegabilmente – la propria estinzione.
Parliamo dunque di evoluzione umana e della scienza che se ne occupa: la paleoantropologia. Lo facciamo attraverso la sua giovane storia. A pensarci, può sembrare curioso voler narrare il percorso di una scienza che racconta la nostra Storia naturale, dove le parole racconto e storia sembrano quasi rincorrersi fra loro, come in una fuga di Bach. Rimane il fatto che la scienza va comunque raccontata – specie in questo nostro «difficile Paese», come ha lasciato scritto nel suo ultimo messaggio (quasi un testamento spirituale) Piero Angela – e, soprattutto, ne deve essere descritto il metodo, che è anche un modo di pensare: quello impostato da Galileo Galilei e da altri, soltanto alcuni secoli fa.
Agli inizi della paleoantropologia come scienza, i Neanderthal sono stati i primi a essere scoperti e individuati quali nostri parenti estinti. L’anno 1856, in particolare, fu di portata storica. Erano in corso dei lavori di cava in una valle tedesca chiamata Neanderthal (chi non conosce questo nome?) e vi venne rinvenuto uno scheletro, che divenne presto il rappresentante formale di una specie umana estinta: i Neanderthal, appunto. Erano gli «anni ruggenti» del nascente darwinismo, stimolati dall’opera del Maestro (fatemelo chiamare così): Charles Darwin. Fu William King, un geo-paleontologo irlandese, poco noto per altri versi, che nel 1864 ebbe il merito (e il privilegio) di emettere una «sentenza» fatta di due parole in latino: Homo neanderthalensis. Descriveva infatti di una forma umana simile a noi – cioè Homo – ma anche nitidamente diversa e distinta da noi. Col senno di poi, sappiamo che aveva ragione. E questo è proprio il fascino e anche il mistero, oltre che l’interesse scientifico, dei Neanderthal. Essere stati qualcosa di simile e, al tempo stesso, di diverso da noi. Una specie umana estinta, con la quale possiamo confrontarci come allo specchio, per capire meglio chi fossero loro e chi siamo ora noi.
Fra i Neanderthal, ve n’è uno che è ancora intrappolato nel calcare di una grotta in Puglia e che, a trent’anni dalla scoperta, attende di poter essere studiato approfonditamente e rivelare i segreti che conserva. Parliamo del cosiddetto «uomo di Altamura». Scoperto i primi di ottobre del 1993, è diventato nel tempo una sorta di «totem», ma anche di «tabù». È un totem perché si tratta di uno scheletro di straordinaria importanza: un reperto formidabile, unico nel suo genere.
Al tempo stesso, rappresenta un tabù in quanto, dopo la scoperta, si è andata affermando l’idea (sbagliata) che quelle ossa, incastonate nel profondo della Murgia, siano una sorta di monumento intoccabile: qualcosa che non va disturbato, là dove si è conservato per 150mila anni o forse anche più.