Domenicale, 17 marzo 2024
Truman Capote e le sue amiche
Fu Arbasino a raccontare dell’ultimo Truman Capote esitante e modesto sulla spiaggia e ai tea-dance delle discoteche gay di Cherry Island («il solo in giacchetta: faceva impressione»), sopravvissuto a sé stesso, maschera e imitazione di sé, ologramma in completo e panama color panna («si commentò: somiglia a Truman Capote. Altri ripeté: l’ultimo stadio»). Oggi su YouTube si possono vedere esempi di footage, frammenti di talk show televisivi dove Truman vaneggia, ubriaco e fatto, insultando in modo dissennato i fantasmi di cui era geloso (Gore Vidal gli fece causa per diffamazione. Capote si ostinò e chiamò in causa come testimone l’amica Lee Radziwill, la sorella di Jackie Kennedy, che si guardò bene dal sostenerlo: «Who cares? They’re just a couple of fags», «Chi se ne frega? Sono solo due froci»).
Era, di fatto, l’ultimo stadio. La discesa agli inferi cominciò subito dopo il picco letterario e mondano del 1966, quando uscì il suo capolavoro, il romanzo A sangue freddo, e lui stesso organizzò il “black and white ball” all’hôtel Plaza di New York, che stabilì chi contasse nel jet set e chi no. Fino ad allora sembrava che Truman avesse stretto col diavolo un patto. Aveva raggiunto prestissimo la fama e aveva serbato fino ai quarant’anni i lineamenti un po’ perversi di un angioletto decaduto (così è nelle foto di Beaton, Cartier-Bresson, Avedon), era divenuto ricco e aveva avuto accesso agli yacht e alle magioni dei miliardari, conquistando il ruolo di miglior amico, una via di mezzo tra il cicisbeo e il padre confessore, delle donne che negli anni 50 e 60 stabilirono il canone dell’eleganza, del lusso, dello stile e del distacco: i suoi “cigni”, le sacerdotesse del glamour e del pettegolezzo, Babe Paley, Slim Keith, C.Z. Guest su tutte.
Quel che seguì è noto. Capote si mise a scrivere Preghiere esaudite, un affresco della café society che aveva per modello Proust, senza però l’impalcatura filosofica della Recherche. Nel novembre 1975 il capitolo intitolato La Côte Basque, 1965 uscì su «Esquire» e fu il punto di non ritorno. I cigni, gli amici, i mentori letterari che avevano accolto Truman tra i propri ranghi venivano fatti a pezzi in una ridda di gossip, rivelazioni di episodi secretati, camuffamenti così maldestri (o così calcolati) da rendere riconoscibili le figure derise. Ogni porta si chiuse. In un giorno Capote divenne l’escluso, l’innominabile, il reietto. Trascorse gli ultimi anni della sua vita (morì nel 1984) imbevendosi di vodka, collezionando droghe e psicofarmaci, ficcandosi in squallidi ménage con eterosessuali che miravano ai suoi soldi, ritrovandosi solo e passé, precocemente vecchio, naufrago in un mondo di cui non padroneggiava più i codici. E con l’incubo del libro impossibile che non riusciva a gestire. Preghiere esaudite uscì postumo: è la collazione di tre soli capitoli. Si dice che il manoscritto compiuto sia abbandonato in uno stipo nel deposito degli autobus Grayhound a Los Angeles. Chissà.
Truman e i suoi cigni si affacciano da un volume di Laurence Leamer tradotto ora per Garzanti serbando il titolo originale, Capote’s Women. È un’opera ben documentata e ha il merito di tenersi in equilibrio tra due tesi: era un mascalzone, lo scrittore capace di tradire i segreti delle amiche? o sono queste ultime le vendicatrici aride e impietose? Capote invocava la franchigia morale per l’artista; i cigni feriti riassestavano il canone, da lui sconvolto, della complicità tacita e omertosa, il principio per il quale non importa quali abissi oscuri si nascondano sotto la superficie, purché lo spettacolo continui a andare in scena. Purtroppo la corriva traduzione italiana contiene questo incredibile svarione: «l’ospite di Lady Ina, P.B. Jones, una sgualdrina bisessuale» (decine di pagine prima era invece uno «smaliziato approfittatore»: deve aver cambiato sesso nel frattempo). Ora, il fondamentale personaggio di P.B. Jones non solo è un uomo, ma è l’io narrante di Preghiere esaudite e l’alter ego di Capote stesso, il recipiente dell’autobiografia di Truman.
Dove il libro di Leamer si arresta, la serie televisiva trattane, Feud: Capote vs. The Swans, in onda su FX negli Usa e presto in Italia su Disney+, va molto più a fondo, grazie alla sceneggiatura di Jon Robin Baitz e alla regìa di Gus Van Sant. Non solo è la ricostruzione stupefacente di un mondo e dei suoi riti, delle sue specificazioni sociologiche e delle sue norme estetiche, ma ne è una scomposizione psicologica. I cigni e Capote stesso hanno vissuto quel breve tratto di splendore cristallino, in una Camelot appartata ma sfavillante, che va dalla metà degli anni 50 alle proteste studentesche, alla caduta di Nixon, alle rivendicazioni delle minoranze, alla Pop Art di Warhol. E quando capiamo che quella cuspide di civiltà è destinata a inabissarsi subentra il senso del tragico, che nel declino umano di Truman si rastrema vertiginosamente.
«Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è intesa unicamente per l’autoflagellazione», scrisse Capote. Il libro che segna la sua sconfitta è forse, nella sua dimensione di torso incompiuto, il suo più alto esito di stile. Mai la sua scrittura, che qui serpeggia negli slalom del pettegolezzo, della maldicenza, della futilità e spesso dello squallore, è stata più mercuriale, più rapida nelle scorciatoie, più sicura nel ritmo e nell’accento di quanto non avvenga in Preghiere esaudite. Nella tecnica pianistica c’è un effetto, difficilissimo da padroneggiare, che si chiama jeu perlé: consiste nel suonare una serie di note veloci non legandole tra loro, ma articolandole e facendole spiccare una dopo l’altra, come fossero perle di una ghirlanda. In Preghiere esaudite la scrittura di Truman Capote è proprio questo, la perfezione di un jeu perlé irraggiungibile.
Babe Paley, il cigno adorato, non rivolse mai più la parola a Truman dopo la pubblicazione del famigerato capitolo La Côte Basque, 1965. Mentre lui precipitava nel proprio lento suicidio, Babe moriva di cancro ai polmoni, serbando fino all’ultimo (si truccò meticolosamente la sera prima di morire) la disciplina della bellezza. Prima di andarsene, nel 1978, curò nel minimo dettaglio la cerimonia del proprio funerale, il menù, i regali per ciascuno, il placement, dettando dal letto dov’era costretta squisiti bigliettini con la serenità di uno stoico, mentre sullo stereo girava il long playing e la voce di Perry Como seguitava a cantare: «It’s just impossible».
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Laurence Leamer
Capote’s Women
Garzanti, pagg. 352, € 20