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 2024  marzo 20 Mercoledì calendario

Intervista a Gabriele Salvatores

Il film più bello di Gabriele Salvatores è Gabriele Salvatores: dolcemente affondato nel divano del suo soggiorno milanese, con un maglione nero e il sorriso gentile, racconta di film, viaggi, paure e amori con una qualità cinematografica rara.
Maestro, dove tiene la statuetta dell’Oscar conquistato con «Mediterraneo»?
«È dietro di lei».

Mi volto: in una mensola della libreria, seminascosto tra un volume su Fellini e uno su Kubrick, scintilla il cavaliere crociato. Appena visibile.
Mi chiedo da dove venga questo suo understatement.
«Guardi, in realtà io da settantatré anni convivo con qualcosa di molto diverso: l’ansia. Ho paura di tutto, anche delle piccole cose quotidiane. Solo quando giro un film mi calmo del tutto».
Famiglia napoletana di antico lignaggio, l’arrivo a Milano negli Anni 50. Com’è stata la sua giovinezza?
«Me li ricordo i cartelli contro i napoletani, ma per fortuna ho avuto un padre solido, un avvocato crociano che quando mi vide con i capelli lunghi non fece scenate ma si limitò a ordinarmi di camminare sul marciapiedi opposto a quello dove passava lui».
Il primo grande amore della sua vita.
«Mia madre Luciana, che sostenne in gran segreto la mia vocazione artistica. Ma riconosco che io sono stato un bravo figlio, molto devoto. Forse è anche per questo che di figli non ne ho avuti».
Oggi vorrebbe averne avuto almeno uno?
«Forse sì. Ma con le due donne più importanti della mia vita, Corinna Agustoni e la mia attuale compagna, Rita Rabassini, per motivi diversi abbiamo deciso di non averne. Corinna non ne voleva e Rita, quando ci siamo messi assieme, aveva già Marta».
Marta, che è figlia di Rita e di Diego Abatantuono.
«Sì, come molti sanno conobbi Rita frequentando Diego, e sa qual è la cosa divertente oggi? Che per i tre bambini di Marta lui è, giustamente, “nonno”, mentre io sono “nonno bis”. Quel serpentone di Diego, però, si diverte a chiamarmi “bisnonno”».

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Torniamo al Salvatores con i capelli lunghi.
«Compii diciotto anni nel 1968, quando si contestavano i professori e nelle università si abolivano gli esami per inscenare drammi teatrali. Io mi avvicinai al movimento studentesco tramite Mario Capanna e ricordo bene che cosa voleva dire fare teatro. La mia prima sala prove è stato il centro sociale Leoncavallo. Fondammo l’Elfo nel 1972 e, mi creda, davvero per noi l’arte non era un divertimento o un esercizio di stile, ma era un modo di cambiare il mondo. Ecco perché da quella generazione sono nati registi come Nanni Moretti o Giuseppe Tornatore e, sì, mi ci metto anche io».
Autarchici.
«Del tutto. La generazione precedente, quella dei Bertolucci o di Fellini, andava invecchiando, noi dovevamo inventare qualcosa di nuovo. Con Nanni ancora oggi c’è un bel rapporto, anche se quando passai dal teatro al cinema mi accolse con fare burbero. “Nanni, sai che abbiamo fondato una società di produzione, la Colorado?”, gli dissi. E lui: “Il Colorado è lontano da Vienna, dove si fa la Sacher”. Pensi che fino a poco tempo fa, ad ogni film che faceva gli inviavo un telegramma».
Non tutti lo sanno, ma lei ha ispirato uno dei personaggi più belli di Paolo Rossi, Kowalski. Che rapporto ha con Paolo?
«Lui è geniale, completamente folle, è quello che avrei voluto diventare io se non fossi stato bloccato da questa maledetta ansia. Una volta mentre stavamo girando l’Italia con Comedians, Paolo mi fece uno scherzo: entrai in camerino e lo vidi mentre aspirava una enorme quantità di polvere bianca. Mi spaventai a morte, ma alla fine scoprii che era gesso e farina».
In tutti i suoi film, ironia e disperazione camminano fianco a fianco.
«Tutto nasce dalla Milano degli Anni 60 e 70. C’era l’allegria dei movimenti studenteschi ma tutti sentimmo bene il fragore delle bombe nel ’69. Io, nel giorno di piazza Fontana, stavo suonando con la band che avevo allora. Il rumore della musica venne interrotto dal boato e da allora niente fu più uguale. Quel senso di fuga che si legge nei miei film più famosi, altro non è che una strada aperta verso qualcosa d’altro. Un altro Paese, un altro amore».
Nella sua autobiografia scritta con Paola Jacobbi, lei racconta i suoi quarant’anni d’amore con Rita. Come si fa a tenere assieme un amore così longevo?
«Perché viviamo in due città diverse, io a Milano e lei in Lucchesia. La distanza è fondamentale, perché, come diceva Fellini, spesso la realtà delude. Il nostro amore, invece, resiste».
Una volta però ha rischiato grosso. Lei si infatuò di un’altra e Rita se ne andò.
«Ma lasciò una porta aperta e così io decisi che l’avrei riconquistata. Impiegai due anni: telefonate, lettere, biglietti. Arrivai anche ad acquistare una piccola casa vicina a quella dove abitava lei. Volevo essere una presenza costante ma discreta. Ci sono riuscito e oggi la devo ringraziare perché Rita tiene a bada la mia ansia, mi riporta con i piedi per terra, non si lascia sedurre dai miei voli pindarici».
Un attore al quale si sente molto legato sul piano professionale?
«Guardi, nel mio Il ritorno di Casanova ho voluto, tra gli altri, Fabrizio Bentivoglio, che ha saputo mettere in scena molte cose che sono anche mie: le domande sul senso della vita e del tempo che passa, i dubbi su quello che siamo realmente. Poi, certo, ci sono Diego, Ugo Conti, Gigio Alberti e tutta quella compagnia che ha reso famosi i miei film più famosi. È dalle dinamiche di amicizia che si crearono certe scene come la partita di calcio di Mediterraneo: io sono un interista sfegatato, mentre Abatantuono, come è noto, ha il cuore rossonero. Capisce da dove veniva quell’ardore nella sfida? Dalla realtà, una realtà trasfigurata, la radice del cinema».
Che cosa pensò nel 1992 quando le dissero che aveva vinto un Oscar?
«Ovviamente pensai a uno scherzo ma realizzai appieno solo quando, nei bagni del Dorothy Chandler Pavilion, a Los Angeles, incontrai il regista super favorito che era stato sconfitto, Zhang Yimou, in gara con il meraviglioso Lanterne Rosse. Io, con la statuetta in mano, mi avvicinai per dirgli che mi spiaceva, ma lui si voltò e mi disse qualcosa in cinese. Non capii nulla, ma non era qualcosa di amichevole».
Eppure lei ha molti amici.
«Numerosi, anche perché coltivo l’amicizia così come coltivo l’amore, come una piantina da innaffiare con giudizio. Solo un attore, ad un certo punto, mi ha – come dicono i giovani oggi – ghostato, cioè è scomparso da un giorno all’altro senza spiegazioni. Sergio Rubini: con lui ho girato due film e, dopo Denti, lui è sparito. Telefonate, biglietti, messaggi: nulla. Sono persino andato sotto casa sua. Per nessuna donna ho mai fatto questo, forse solo per Rita. Chissà».
Di che cosa ha paura oggi?
«Non tanto della morte, quanto della disintegrazione del corpo e della mente. Vorrei avere dieci vite, perché ho ancora tante cose da fare, tante idee da muovere».