il Giornale, 20 marzo 2024
In viaggio con London tra isole inesplorate
Per viaggiare con profitto nei mari del Sud bisogna procurarsi quattro libri. Il primo è Island Nights’ Entertainments di Robert Louis Stevenson: uscito nel 1893 da Cassell & Company, reca in copertina una bella fanciulla polinesiana; la scherma un’ampia foglia di banano. Stevenson sarebbe morto l’anno dopo; da qualche tempo si era stabilito a Upolu, alle Samoa.
La sua lapide, conficcata sul monte Vaea, porta inscritto un verso che vorremmo coronasse la nostra magra esistenza, «Felicemente ho vissuto e felicemente muoio». Come sempre, i racconti di Stevenson da leggere, preferibilmente, nella versione del poeta Alessandro Ceni, stampa Einaudi, anche quando inquieti, ardono di gioia e sono pieni di vento. I nativi lo chiamavano Tusitala, che significa cantastorie.
All’estremo opposto di questa classifica di classici ci sono i Racconti di mare e di costa (Twixt Land and Sea Tales) di Joseph Conrad. Usciti in origine nel 1912, piacquero a Cesare Pavese, che sintetizzò il tutto così: «Il Mare del Sud è veramente per Conrad il luogo dell’anima». Il più noto di questo ciclo di racconti s’intitola Il compagno segreto, è ambientato tra Thailandia e delta del Mekong: come sempre, in Conrad conquista l’enigma del vagabondaggio, l’ossessione, la cupa colpa, i precordi dell’oscurità, Conrad è il Giovanni della Croce della letteratura in lingua inglese. I mari del Sud offrono spesso una degna quinta ai romanzi di Conrad; ne indico due di natura opposta: Tifone (1902) narra la lotta contro gli elementi di un capitano di lungo corso; Vittoria (1915) racconta una storia d’amore, crestata di violenza e disperanza, a Surabaya e dintorni.
Il terzo di questo poker d’assi è Herman Melville. L’autore di Moby Dick ha cominciato a scrivere disertando nei mari del Sud. Imbarcato sulla Acushnet, scappò, insieme a un altro marinario, Toby, nei recessi di Nuku Hiva, isola delle Marchesi conficcata nell’abbacinante nulla del Pacifico. Restò lì per un mese, in estate, prima di essere scortato a Tahiti dalla Lucy Ann, nave battente bandiera australiana. Nel frattempo, aveva raccolto materiale per il suo primo libro, Typee. In questo caso, la diserzione di Melville si configura come un ammutinamento dalla società occidentale: «l’uomo bianco civilizzato è l’animale più feroce della terra. Sarebbe quanto mai vano moltiplicare gli esempi delle barbarie commesse dalla civilizzazione, superano di gran lunga la quantità di miseria causata dai crimini che consideriamo con tale orrore nei nostri simili meno evoluti. Ritengo che il termine selvaggio sia spesso usato a sproposito quando considero i vizi, le crudeltà e le enormità di ogni genere che sorgono nell’ambiente contaminato di una civiltà frenetica» (per un profilo sul Melville disertore si veda: J. Kabris-H. Melville, Nuku Hiva, Magog, 2022).
L’ultimo avventuriero del gruppo è, immancabilmente, Jack London. Pubblicò i South Sea Tales nel 1911 per Macmillan, con tiratura da superstar: in copertina, su fondo blu cobalto, appare, stilizzata, un’isola dalle svettanti palme; la vela, a sinistra, pare la pinna di uno squalo.
Il libro fu tradotto come Racconti dei Mari del Sud nel 1955, per la Biblioteca Universale Rizzoli, da Beatrice Boffito, e così ora riappare nell’edizione Quodlibet (pagg. 240, euro 15). L’editore ha scelto però di eliminare, forse perché appannata dal tempo, la nota della Boffito traduttrice, tra l’altro, di Zanna bianca che spiega bene l’occhio narrativo di London. Scevro dalle torture esistenziali di Conrad, dai titanismi etici di Melville, dal genio della forma di Stevenson, London «presenta, senza appannaggio di lirismi o di preoccupazioni stilistiche la Melanesia ancora selvaggia»; ha a cuore «l’umanità elementare e misteriosa» dei nativi, «districandone qualità nascoste e insospettate: la pazienza, la prontezza, il coraggio, la brama di libertà». In piena, brutale foga artistica, London aveva da poco pubblicato Martin Eden e Il tallone di ferro; stava lavorando a La peste scarlatta. I Racconti dei Mari del Sud furono scritti, per lo più, sulla tolda dello Snark, un ketch di 43 piedi, di elegantissima fattura, con cui veleggiò, insieme all’inseparabile seconda moglie, Charmian Kittredge, dalle Hawaii all’Australia.
Il novelliere, composto da otto racconti, è centrato sull’insondabile distanza tra bianchi e isolani («I negri non capiranno mai i bianchi, né i bianchi i negri, finché il nero è nero e il bianco è bianco», attacca l’incipit de L’invitabile bianco), dunque, tra l’uomo occidentale e il suo cuore di tenebra.
London eccelle nello sketch, è in grado, a tratti, di farsi simile alle rudi pennellate di Gauguin, ennesimo artista obnubilato dalla fuga dal mondo (come libro fuori quota leggete il suo Noa Noa, inno alla perdita di sé nei meandri tahitiani; vivere, ovvero: farsi divorare il cuore in afrore di fiori tropicali). Il dire di London ha qualità da cineasta: lo scrittore opera con rari elementi e ti inchioda alla pagina, gli basta un gioco d’ombre e un lenzuolo come schermo per far accadere bestie feroci e disastri. Gli incipit sono un incendio; così comincia Il pagano: «Lo conobbi durante un ciclone: e benché fossimo incappati nel ciclone sulla stessa goletta, solo quando la goletta ci fu andata a pezzi sotto i piedi lo vidi per la prima volta»; così inizia Ià! Ià! Ià!: «Era uno scozzese famoso per la quantità di whisky che era capace di ingurgitare cominciando col primo puntualissimo tot alle sei di mattina e continuando a intervalli regolari per tutto il giorno fino all’ora di andare a letto, cioè di solito a mezzanotte».