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 2024  marzo 20 Mercoledì calendario

L’accusa che dopo 30 anni riapre il caso Alpi


Il professore somalo Yahya Amir di dubbi ne ha pochi. L’agguato di Mogadiscio del 20 marzo 1994 contro Ilaria Alpi e Milan Hrovatin ha radici lontane dal Corno d’Africa: «Dovete cercare in Italia». Trent’anni dopo, decide di riprendere in mano quel dossier, raccontando, per la prima volta, episodi inediti sulla complessa, opaca, intricata storia della lunga – e al momento inutile – inchiesta sulla morte dei due giornalisti Rai. E quel che avviene a Mogadiscio, questa volta, potrebbe non rimanere a Mogadiscio.Yahya è il presidente della Somali Intellectual Society, l’organizzazione che nel 1997 raccolse le testimonianze dei somali vittime delle violenze del contingente italiano. Il ginepraio del caso “Alpi – Hrovatin” lo conosce molto bene, si è intrecciato più e più volte con i tanti misteri somali e con pesanti accuse finite per buona parte in nulla. Nell’elenco dei testimoni chiamati dalla commissione governativa Gallo, incaricata di approfondire le denunce di abusi e torture di alcuni soldati e ufficiali nei confronti dei somali, c’era anche Hashi Omar Hassan, il giovane somalo finito in prigione per 16 anni da innocente, ed ucciso anche lui in un agguato a Mogadiscio nel luglio del 2022. Quando sbarcò a Roma nel gennaio 1998 venne arrestato, accusato da Ahmed Ali Rage, detto Gelle, di essere uno dei componenti del commando che uccise l’inviata Rai e il suo operatore. Nel 2016, dopo il processo di revisione, la Corte d’Appello di Perugia accertò che il testimone d’accusa aveva mentito. Lo aveva confermato lui stesso un anno prima all’inviata di Chi l’ha visto Chiara Cazzaniga. Già nel 2002, in una telefonata registrata, Gelle aveva spiegato al giornalista somalo Sabrie Aden che il suo racconto era falso. Lo aveva fatto per scappare dalla Somalia e per soldi, raccontò. Non venne creduto, per un decennio quella telefonata rimase negli archivi giudiziari senza un peso, perché non c’era modo di identificare con certezza la voce. Gelle, opportunamente, era sparito nel nulla, introvabile.Una falsa pista, un testimone forse corrotto, di sicuro mendace. Un innocente recluso per quasi un ventennio. E le indagini sulla morte di Alpi e Hrovatin sono tornate al punto di partenza. Nessun indagato, un fascicolo ancora aperto, con tre richieste di archiviazione presentate dalla Procura di Roma respinte dal Giudice per le indagini preliminari. L’ultima quattro anni fa, nell’ottobre del 2019 e da allora tutto tace.Yahya Amir ha però un’altra storia da raccontare, assolutamente inedita. Lo scenario, questa volta, non è Mogadiscio, ma Roma. Nel biennio 1997-1998 Giuseppe Cassini era il rappresentante speciale in Somalia del governo italiano e fu lui ad individuare il falso testimone Gelle. Cassini era anche l’interfaccia nel Corno d’Africa della Commissione Gallo, occupandosi di verificare le liste delle vittime preparate da Yahya. In quell’elenco finì poi Hashi Omar Hassan. Gelle, tre mesi prima, aveva indicato il suo nome. Non tutti, però, erano convinti. Già allora sembrava una versione di comodo, con la figura di un “Morian”, un piccolo bandito di strada, ed un commando che avrebbe agito per una rapina, poi finita male.In questo contesto Yahya Amir incontra Cassini, secondo il suo racconto: «Un giorno c’erano sette o otto giornalisti, io sono arrivato con l’ambasciatore – ha dichiarato a La Stampa e al capo dell’ufficio di corrispondenza Rai per l’Africa Valerio Cataldi, in Somalia per un reportage per Tv7 – e mi ha detto, «Prepariamo i giornalisti, ci vai a parlare, devi dire che Hashi è colpevole, che è questo quello che è avvenuto e che i soldati italiani erano buoni con la popolazione». La proposta, secondo la versione del presidente della Somali Intellectual Society, avrebbe avuto anche una contropartita: «I giornalisti registreranno e tu sarai libero di rimanere in Italia o di andare dove vuoi, pensaci, mi hanno detto». Il suo racconto diventa a questo punto una dura accusa: «Mi hanno dato una busta di carta, una grande busta, di color cemento; l’ho aperta e c’erano sessanta mila dollari. Non ho accettato».L’ambasciatore Cassini, chiamato in causa da Yahya Amir, raggiunto da La Stampa, ha una prima reazione di sorpresa: «Questa mi giunge nuova! Sessantamila dollari? Quanto ha detto? Vede, questo è il modo di fare somalo, non è una menzogna nella testa di un somalo, è semplicemente un modo di stringere il proprio interesse clanico». Non smentisce di aver conosciuto ed incontrato il rappresentante della Somali Intellectual Society – dato di fatto che emerge anche dagli atti della commissione parlamentare d’inchiesta del 2006 – ma respinge l’ipotesi di aver chiesto a Yahya di accusare Hashi in cambio di soldi.Il racconto di Yahya riporta il baricentro dell’inchiesta lunga trent’anni sulla morte di Ilaria Alpi e Miran su un punto chiave, il biennio 1997-1998 e la commissione Gallo. Fu proprio la Somali Intellectual Society a raccogliere e documentare quasi cento episodi di violenze nei confronti di civili, commessi – secondo alcuni testimoni – da soldati italiani. Era la prima missione Onu che vedeva la nostra partecipazione militare, in un contesto che aveva visto l’Italia prima Paese colonizzatore, poi a capo di un protettorato e infine protagonista di investimenti, a volte macchiati da ombre e sospetti. Le foto e le testimonianze pubblicate in quei mesi su stupri e vere e proprie torture ebbero, dunque, un impatto notevole. Nel luglio 1997 esce la prima relazione della commissione d’indagine governativa presieduta da Ettore Gallo; dopo pochi giorni l’ambasciatore Giuseppe Cassini, con l’aiuto del somalo Ahmed Washington, capo della rappresentanza della Commissione europea a Mogadiscio, individua e incontra Hashi Omar Hassan, che Gelle aveva indicato come uno dei componenti del commando omicida. Riscontri? Nessuno. Nel frattempo, il falso testimone viene fatto arrivare in Italia e interrogato dalla Digos di Roma. A dicembre, alla vigilia di Natale, Gelle sparisce, lasciando Roma. Dopo quindici giorni, a metà gennaio, ecco che arrivano in Italia gli undici somali, come testimoni e vittime della commissione Gallo. Anche Hashi era tra loro e la sua esperienza di vittima delle violenze italiane ce l’ha raccontata nei giorni scorsi la madre: «Lo avevano preso i soldati, gli legarono le mani e lo buttarono in mare». Per Giuseppe Cassini in fondo non era nulla di particolarmente rilevante: «Non era tortura quella, mi ricorda la storia del Conte di Montecristo», commenta a La Stampa con un velo di sarcasmo. Oltre ad Hashi in quella lista c’era anche l’autista di Ilaria e Miran, Sid Ali Mohamed Abdi: interrogato il 12 gennaio del 1998 prima nega di conoscere i membri del commando omicida, poi – dopo una lunga pausa – dichiara di aver riconosciuto uno di loro in Hashi. Viene ufficialmente retribuito come testimone, torna in Somalia nel 2002: «Dopo un giorno appena è morto», racconta Yahya. L’arresto di Hashi, la sua accusa di omicidio, hanno avuto un doppio effetto: chiudere quel caso scomodo sull’agguato di Mogadiscio e, più o meno indirettamente, mettere in dubbio la storia delle violenze in Somalia. Ed è la stessa commissione Gallo a certificarlo: «Né si può sottacere che l’arresto, da parte dell’Autorità giudiziaria, del testimone somalo che la Commissione aveva ascoltato come parte offesa, ha rappresentato oggettivamente un elemento che ha indebolito il valore delle audizioni dei somali», si legge nella seconda relazione del 1998.Dopo trent’anni riannodare i fili appare sempre più difficile. Impossibile entrare nella città di Bosaso, dove Ilaria e Miran realizzarono l’ultima inchiesta. A chi scrive è stato negato il permesso e il corrispondente Rai Valerio Cataldi ha trovato la strada sbarrata: «Potresti fare una fine peggiore della tua collega», è stato il messaggio inviato da un senatore somalo, prima di obbligarlo a lasciare la città.