il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024
Revenge porn, i numeri delle vendette a luci rosse
Il caso del video hard a luci giallorosse, i colori della squadra di calcio della Roma, è solo l’ultimo episodio di una pericolosa serie di abusi che in Italia, e nel resto del mondo, si sta propagando nella sfera dei social network.
Il sexgate romanista ha prodotto per ora il licenziamento della dipendente (e del suo compagno) alla quale era stato sottratto il filmato, a quanto pare da un giovane giocatore della Primavera, con la conseguente apertura di un’inchiesta da parte della Federcalcio. Ma il fenomeno del revenge porn, cioè dei video intimi di carattere sessuale carpiti e diffusi online senza consenso, ha assunto ormai proporzioni allarmanti e minaccia sempre più di provocare conseguenze che possono diventare drammatiche.
A documentarlo, dati alla mano, è uno studio realizzato dal professor Roberto De Vita, penalista e docente della Scuola della Guardia di Finanza, insieme agli avvocati Giada Caprini e Marco Della Bruna. La ricerca attinge a varie fonti su scala nazionale e internazionale, fornendo anche alcune indicazioni per contrastare questa forma di pornografia che non è legata esclusivamente alle “vendette di relazione”. Una pratica contagiosa in particolare nelle generazioni dei “nativi digitali”, soprattutto da parte dei mariti o dei fidanzati traditi, ulteriormente alimentata dall’uso dell’intelligenza artificiale: di recente, in una scuola di Latina, cinque studenti hanno virtualmente “spogliato” quattro compagne di classe e hanno postato le immagini in Rete, facendo scoppiare una rissa.
Gli utenti dei social colpiti dal revenge porn, in base ai dati raccolti dallo Studio De Vita, sarebbero uno su otto, con percentuali ancora più elevate nel caso dei minori. Solo in Italia si stima che siano più di due milioni e il 51% delle vittime, scosse o turbate dalla gogna mediatica, arriva a contemplare la possibilità del suicidio. Ma questo “giro d’affari”, per così dire, coinvolge nel nostro Paese 14 milioni di account che hanno visualizzato in Rete immagini intime o erotiche senza consenso.
Sui gruppi Telegram dedicati al pubblico italiano, l’Osservatorio Permanente di “Permesso Negato” ha rilevato un numero di utenti registrati non unici pari a 13 milioni e 152 mila account. Secondo un’altra fonte citata nello stesso dossier, il 4% degli italiani sarebbe vittima di revenge porn e quasi il 9% dichiara di conoscere almeno una vittima. Un italiano su sei, inoltre, avrebbe prodotto immagini o video intimi e la metà di questi li avrebbe condivisi con altre persone.
“Il revenge porn – avvertono gli autori della ricerca – è parte di un più ampio fenomeno, la pornografia non consensuale (Ncp), non necessariamente connesso a ‘vendette di relazione’ e che attiene alla condivisione/diffusione digitale, senza il consenso della persona ritratta, di immagini di carattere sessuale: immagini riprese consensualmente o volontariamente nel corso di un rapporto sessuale o di un atto sessuale, ma destinate a rimanere private o a essere condivise privatamente; immagini carpite da telecamere nascoste; immagini sottratte da dispositivi elettronici; immagini riprese nel corso di una violenza sessuale”.
Si tratta di “cicatrici digitali” che spesso incidono sulla psicologia delle donne e delle ragazze colpite dagli ex partner, lasciando un segno indelebile nella loro personalità. E tale è la vergogna o il senso di colpa che, in qualche caso, inducono le vittime più fragili e vulnerabili a togliersi la vita. Non è soltanto una grave violazione della privacy, individuale o soggettiva, ma anche un’esposizione pubblica e arbitraria al giudizio di una comunità potenzialmente illimitata com’è quella della Rete. Una sorta di “colonna infame” che sul web non ha confini.
Ma ora, alle forme più “tradizionali” di un fenomeno digital enabled (“abilitato al digitale”), si sta aggiungendo anche la creazione originale di materiale pornografico attraverso l’uso dell’intelligenza artificiale: il cosiddetto deepfake, attraverso cui vengono raffigurati volti e sembianze di persone reali e spesso facilmente identificabili.
“Seppur di recente e ancora limitata espansione – commenta il professor De Vita – questo sub-fenomeno ha in sé tutta la devastante potenzialità dell’I.A. che ne favorisce e accelera la diffusione, mettendo in crisi gli attuali strumenti normativi nazionali e internazionali: a tutt’oggi, la loro funzionalità rimane sostanzialmente limitata a materiale prodotto da creazione reale e non artificiale”.
Attraverso un confronto con quello che è stato fatto e si sta facendo in altri Paesi, lo studio offre un’analisi comparata che può essere utile per definire una strategia di contrasto, sottolineando però che “la mera risposta in termini sanzionatori non rappresenta un efficace presidio”. Non basta, insomma, punire i colpevoli. “La vera sfida – sostengono i ricercatori – è avere la capacità di intervenire preventivamente o, quantomeno, tempestivamente, cercando di evitare che la violazione causi il danno continuo e permanente che caratterizza le diffusioni del materiale personale”.
In Italia, è stata introdotta nel 2019 una disciplina specifica sul revenge porn all’interno del Codice Rosso che – com’è noto – rafforza la tutela di tutti coloro che subiscono violenze, a causa di atti persecutori e di maltrattamenti. L’articolo 612 punisce la “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, destinati a rimanere privati. È prevista la reclusione da uno a sei anni, con una multa da 5.000 a 15.000 euro. Alla data di settembre 2023, i casi giudiziari sono stati complessivamente 4.821: per il 69% hanno riguardato donne, di cui il 17% minorenni.
Sul piano tecnico, secondo lo Studio De Vita, “la reazione finalizzata a impedire ovvero limitare la diffusione delle immagini, deve partire da una immediata denuncia che consenta l’attivazione delle forze di polizia e dalla capacità di queste ultime di interagire al loro interno con i reparti specializzati, come la Polizia delle Comunicazioni”.
All’inizio, al pari di un’epidemia sanitaria, non si interviene per eliminare il contenuto diffuso illecitamente, ma piuttosto per ricostruire la ramificazione delle condivisioni e quindi interrompe il contagio digitale. Una volta eseguita la tracciabilità, laddove è materialmente possibile, si possono rimuovere i contenuti. Dal 2021, infine, è stato inserito un nuovo articolo nel Codice della Privacy e il Garante ha attivato recentemente una piattaforma sul proprio sito. Ma occorre potenziare e incrementare il servizio. Nei primi undici mesi del 2023 gli interventi sono stati 264 a fronte dei 51 dell’anno precedente. Da un anno all’altro, invece, le segnalazioni sono più che triplicate. E già questo è un segnale d’allarme che non si può trascurare.