il Fatto Quotidiano, 20 marzo 2024
Il concerto di Renato Zero
Quale star della canzone potrebbe permettersi un intero concerto senza le hit che l’hanno reso famoso? Poche, pochissime, forse nessuna. Anzi, una c’è: uno dei rari artisti che non pensa mai al ritiro e alla pensione, non tira i remi in barca e continua a comporre e a inventare come quando aveva vent’anni. Renato Zero è tornato nei palasport per il lungo tour Autoritratto partito da Firenze, ora a Roma fino a domenica e prossimamente in piazza del Plebiscito a Napoli, poi a Bari, poi nelle isole e in autunno… be’, lo dirà lui. Ma stavolta niente Amico, Il cielo, Il carrozzone, Magari, Spiagge, Sogni di latta, La favola mia, Niente trucco stasera, Vivo. E i brani più ballabili e cazzari sono concentrati in un medley scatenato, ma affidato ai coristi. È un lusso che può permettersi soltanto un cantautore che in mezzo secolo di carriera ha scritto quasi 600 brani e ora si diverte a estrarre dalla collezione le perle e i pezzi d’argenteria dimenticati e un po’ fané, a spolverarli e lucidarli a nuovo, a riproporli in tutta la loro potenza e attualità. Come Il ritorno (che apre il concerto), Salvami, I nuovi santi, Il grande mare, Figaro, La pace sia con te, Il mercante di stelle e i due capolavori interpretati con l’accompagnamento al solo pianoforte di Adriano Pennino e Alterisio Paoletti: Fantasia ed E io ti seguirò. Uniche concessioni alla hit parade: I migliori anni della nostra vita, in chiusura; Cercami e Inventi, buttati lì una sera soltanto. Poi ci sono gli ultimi nati della famiglia, dall’ultimo album Autoritratto che battezza il concerto, con meraviglie come Vita, Così tenace, Fa che sia l’amore, Cuori liberi, Quel bellissimo niente.
I “sorcini”, anche i più smemorati, accettano e apprezzano disciplinatamente. E riscoprono anche loro emozioni che parevano ormai sopite. Sono le solite tre o quattro generazioni, dai ragazzini ai nonni, che si danno appuntamento a ogni chiamata dai tempi del tendone di Zerolandia e hanno con lui un rapporto quasi carnale. Molti tornano anche due o tre volte e lui ogni sera regala loro un paio di sorprese e qualche ospite (la prima è stata Tosca). A 73 anni, è in forma smagliante: canta, balla, monologa, cazzeggia, cambia costumi e copricapi per tre ore senza risparmiarsi, trasmettendo la sua energia travolgente e contagiosa. Alle sue spalle, l’orchestra Piemme Project registrata e, in live, la band collaudata: Danilo Madonia direttore, tastierista e pianista, Lorenzo Poli al basso, Lele Melotti alla batteria, Bruno Giordana alle tastiere e sax, Rosario Jermano alle percussioni, Giorgio Cocilovo e Fabrizio Leo alle chitarre, e un quartetto di giovanissimi fiati. Tutto autoprodotto, fatto in casa con la sua etichetta Tattica.
Istiga i ragazzi a “ripopolare le piazze”, a ribellarsi, a farsi sentire riportando in vita il vecchio Sciopero e iniettandogli nuova linfa. Irrompe nel tema dei conflitti con Figli della guerra, in quello della violenza sulle donne con Nessuno tocchi l’amore, in quello della denatalità con La culla è vuota, in quello dell’amicizia con Non ti cambierei (scritta per gli 80 anni dell’amico Al Bano), in quello della privacy violata con Vive chi vive, in quello dell’identità-ambiguità con Come mi vorresti, in quello del copia-incolla da social con Sosia, altro brano resuscitato dallo splendido album Voyeur del 1989 (il più saccheggiato, fra quelli storici).
Quasi ogni sera, alla fine, scende fra il pubblico a salutare e stringere mani con solennità ieratica e lievemente papesca, mettendo a dura prova il servizio d’ordine. Ogni tanto, durante i monologhi fra un brano e l’altro, improvvisa siparietti col pubblico che profitta del silenzio per urlargli qualcosa. Tipo quando lui fa notare che pochi suoi colleghi hanno voluto interpretare i suoi successi. Voce roca dalla piccionaia: “Perché nun so’ capaci!”.