la Repubblica, 20 marzo 2024
Intervista a Luciana Castellina
"Enrico è stato il primo comunista che ho conosciuto, forse il secondo. Ho un ricordo nitido del nostro primo incontro: timido, austero, con quel rigore che caratterizza la sardità. Ma non riesco a liberarmi dal senso di dolore e sgomento dell’ultima volta, quando lo vidi nell’ospedale di Padova ormai senza coscienza. Un’immagine che ancora mi accompagna”. Luciana Castellina sembra indifferente agli agguati della vecchiaia, il bel volto ancora perfettamente disegnato, la voce importante di chi è abituato a parlare nelle piazze. Ad agosto compie 93 anni, molti dei quali trascorsi in accordo e disaccordo con Berlinguer, il segretario del Pci di cui il 25 maggio ricorre il centenario della nascita. “Il nostro è stato un rapporto anomalo. È lui che ci ha cacciati dal partito nel 1969. Ed è lui che ha insistito nell’84 perché noi del Manifesto vi ritornassimo. La sua scomparsa ha segnato il nostro destino, e quello della storia del paese”.
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Il primo incontro fu subito dopo la guerra."Nel 1947, alla riunione del Fronte della Gioventù, come allora si chiamava il movimento dei giovani comunisti e socialisti. Io avevo 18 anni, lui 25. Era il capo del Fronte. Mi chiese timidamente di spostare delle panche per far posto a chi arrivava”.
Era timido?
"Non so se fosse timidezza o scarsa abitudine a stare con gli altri. Mi apparve subito meno socievole del fratello Giovanni, che avevo conosciuto a casa mia insieme al loro padre, un avvocato antifascista amico del mio patrigno. Enrico sembrava più chiuso. La sua ironia l’avrei scoperta più tardi”.
Cos’era la sua ironia?
"Un tono scherzoso, che gli evitava le rotture sul piano personale. Anche nei momenti più difficili sapeva alleggerire. E nella distanza politica la sua ironia impediva che la contrapposizione degenerasse in uno scontro violento”.
La timidezza traspare anche davanti al suo popolo in festa. Sembra sempre un po’ a disagio, non alza mai il pugno. L’esatto contrario del tribuno populista.
"Questo è vero. Ma, attenzione, la sobrietà era una cifra dei dirigenti comunisti. Togliatti parlava come un professore di liceo, Enrico con uno stile scabro, asciutto. Mi ricordo una donna vicino a me ai suoi immensi funerali. Mi disse: nei suoi discorsi non ci sono mai i fronzoli, si vede che è sincero. Nel Pci non si gridava. Sia Togliatti che Berlinguer si sarebbero vergognati a usare toni urlati o a far leva sugli istinti più bassi”.
Avete lavorato insieme al primo piano di Botteghe Oscure.
"Sì, era il segretario della Fgci appena ricostituita, io poi sarei diventata direttrice di Nuova Generazione, il settimanale dei giovani comunisti. Ma lo vedevamo poco. Al cinema o in pizzeria, Enrico non veniva mai. Se ne stava chiuso nella stanza e noi andavamo a bussare alla sua porta solo se era necessario. Era difficile avere rapporti personali con lui”.
Che spiegazione si è data?
"Era già nella direzione del Pci, con una responsabilità importante, quando ci fu l’attentato a Togliatti. Questo significò per lui vivere a 26 anni sotto scorta, praticamente segregato”.
Com’era con le compagne?
"Serio, rispettoso. In un universo che pure era caratterizzato da un’egemonia maschile, non ricordo uno sguardo di sufficienza. C’era tra noi un rapporto paritario. Sul piano più personale, vivevamo tutti dentro la gabbia del ruolo. A me non è venuto mai in mente di pensare a lui come uomo. E lui non mi guardava come donna. Faceva parte della nostra militanza comunista: non solo non avevamo rapporti sentimentali, ma non ci pensavamo proprio”.
Fu lui a scegliere come icona femminile la santa martire Maria Goretti, vittima di un omicidio a seguito di un tentativo di stupro.
"Sì, proprio lui. Ma non per puritanesimo sessuale. La scelse perché incarnava il valore della resistenza, per di più era cattolica. Certo, il partito all’epoca era molto bacchettone. Ricordo la faccia che aveva fatto Enrico a Praga, quando chiesi ospitalità a Bubi Campos Venuti, futuro urbanista, per un bucato. Dividevano la stessa stanza e Berlinguer restò perplesso davanti al filo steso con le mie mutandine. Dovetti combattere non poco all’interno di Botteghe Oscure per conquistare un rapporto più moderno tra uomini e donne”.
Ma sul biliardino era più avanti Berlinguer.
"Una parte di noi difendeva la natura politica dei nostri circoli, escludendone il profilo ricreativo. Ma Enrico aveva capito che mentre i giovani cattolici potevano disporre dei giochi in oratorio, i nostri militanti – per larghissima parte contadini poverissimi – sarebbero rimasti esclusi da ogni divertimento. Così ci impose il calciobalilla nelle sezioni del Fgci”.
Comprese per tempo anche che era opportuno creare un rapporto con i giovani democristiani.
"Per alcuni aspetti erano più avanti di noi. Scoprirono Gramsci quando noi non l’avevamo ancora letto. Da responsabile degli studenti universitari comunisti, su incarico di Enrico andai a trattare con Franco Maria Malfatti, che era il loro leader. Gli proposi di andare a Varsavia al congresso della federazione mondiale della gioventù. Ma lui vi mandò al suo posto Lucio Magri. Più tardi molti di loro sarebbero confluiti nel Pci”.
Lei prima ha detto che fu Berlinguer a espellere gli eretici del “Manifesto” nel 1969. In realtà tentò in tutti i modi di mediare.
"Cercò di trattenerci, consentendoci il dissenso all’interno del Pci a condizione però che rinunciassimo alla nostra rivista. Non voleva che anche i filosovietici facessero il loro giornale, cosa che gli metteva molta più paura. Noi non cedemmo e il partito ci espulse. Lui all’epoca era il vicesegretario, destinato a succedere a Longo”.
Ma non ci fu una rottura sul piano personale.
"No, con Enrico non ci furono mai toni aspri. Questo era il tratto umano a cui facevo riferimento prima. Anche durante i conflitti più accesi tra ingraiani e amendoliani evitava di schierarsi. Ma non certo per opportunismo. Aveva una sua forma di disciplina fortemente interiorizzata. E non assumeva atteggiamenti che avrebbero potuto incrinare l’unità del partito”.
Indicò in uno del vostro gruppo, Luigi Pintor, il giornalista italiano più bravo. E sarà sempre Pintor a scrivere sulla sua morte a Padova: sarei voluto essere sul palco a sorreggerlo.
"A tenerli uniti più della politica era la sardità. Non credo si siano frequentati molto. Caratterialmente diversissimi, c’era tra loro una silenziosa e intima connivenza”.
Con il gruppo del “Manifesto” avete fortemente avversato il compromesso storico. A distanza di quasi cinquant’anni nessun ripensamento?
"No, per niente. Fu un errore. Enrico non aveva capito nulla del Sessantotto e delle spinte che arrivavano dagli studenti e dal movimento operaio. E confuse il mondo cattolico con la Democrazia Cristiana, un partito dove allignava anche la corruzione”.
Berlinguer avrebbe fatto della “questione morale” un tema politico centrale.
"Fu proprio allora, al principio degli anni Ottanta, che cominciò il nostro riavvicinamento. Accusato da una parte del suo stesso partito di moralismo, in realtà fu il primo a vedere il deterioramento del sistema democratico in Italia. In una famosa intervista su Repubblica a Eugenio Scalfari, nel luglio del 1981, denunciò l’occupazione dello Stato da parte dei partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela”.
Tra voi erano venuti meno i motivi di contrasto.
"Sì, a cominciare dal rapporto con l’Unione Sovietica con cui nel frattempo aveva rotto. L’ultimo Berlinguer è quello più a contatto con i movimenti sociali. Fu tra i primi leader politici ad avvistare la questione ecologica: l’austerità era la formula con cui voleva porre limiti allo sviluppo anche per affrontare l’emergenza ambientale”.
E poi ci fu anche la scoperta della questione femminile.
"Si presentò a un seminario della Libreria delle donne a Milano e per due giorni ascoltò le teorizzazioni delle femministe più radicali. Ormai quasi su tutto eravamo sulle stesse posizioni. Nell’84 venne al nostro congresso del Pdup e chiese a Lucio di rientrare nel partito. Poco dopo sarebbe mancato”.
Lei era a Trieste quando fu colpito da ictus durante un comizio in piazza delle Erbe a Padova.
"Partimmo l’indomani all’alba con Tortorella. Lo vidi sul letto intubato, accanto i figli ancora piccoli. Non sono mai riuscita a liberarmi da quell’immagine di dolore e sgomento. Fu per me un lutto personale e un lutto politico. Con la perdita di Enrico tramontava il nostro progetto comune”.
Ancora si discute dei limiti della sua azione politica e delle sue fondamentali aperture. Ma a distanza di tanti anni resta indiscutibile la tempra morale. E la coerenza.
"Sì, anche tra i più giovani è ancora molto viva la sua immagine di onestà e di integrità morale. Per tutti noi la politica è stata innanzitutto “la scoperta degli altri”, e questo continua ad affascinare molto i ragazzi"