La Lettura, 17 marzo 2024
Sulla nuova traduzione de L’educazione sentimentale
Dovevo essere molto giovane quando – durante la pausa-caffè di un convengo in cui mi ero imbucato – sentii il noto francesista affermare che per lui niente era più perfetto del primo capitolo dell’Educazione sentimentale di Gustave Flaubert. Un giudizio che mi sembrò bizzarro, oserei dire, sia nel metodo che nel merito. Anzitutto, in quegli anni era raro che un erudito si esprimesse in modo così perentorio sul valore estetico di un’opera. Dopo decenni di egemonia strutturalista, esibire i propri gusti era una gaffe che poteva esporre l’incauto esegeta all’accusa di impressionismo. A turbarmi, inoltre, c’era la maldestra aporia: può essere un’opera più perfetta di un’altra?
Del resto, lo ammetto, avevo un rapporto difficile con il terzo romanzo di Flaubert. In teoria aveva gli ingredienti giusti per piacere a un lettore giovane e appassionato: l’età acerba dell’eroe, le ambizioni artistiche che lo animavano, l’amore per una donna adulta, sposata e impenetrabile: una passione in bilico tra idealismo stilnovista e sensualità romantica. Insomma, sulla carta era il degno compagno di scaffale dei tesori più preziosi della mia libreria: Il rosso e il nero, Illusioni perdute, David Copperfield. Eppure le due letture cui l’avevo sottoposto – prima al liceo, poi all’università – mi avevano lasciato freddo. A indispettirmi era la mancanza di pathos, l’azione ridotta al lumicino, il succedersi di scene confuse zeppe di personaggi mediocri su cui l’eroe stentava a stagliarsi. Niente a che vedere con il classico Bildungsroman ottocentesco.
Avrei dovuto attendere la terza lettura per ricredermi e per sottoscrivere il giudizio entusiasta del noto francesista. Sì, niente di più perfetto. Oggi, a tanti anni di distanza, ne sono così convinto da chiedermi perché mi siano occorse tante letture per rendermene conto. Forse, mi dico, si tratta del tipico romanzo che, a dispetto delle premesse, è più adatto al disinganno della mezza età che agli incanti dell’adolescenza.
La magia di una nuova traduzione
L’occasione per tornarci su mi viene offerta da un evento editoriale di prim’ordine: l’edizione dell’Education appena uscita per “I Classici Bompiani” ad opera di Yasmina Mélaouah, una delle migliori traduttrici in circolazione.
A proposito di ansia di perfezione, il lavoro eseguito da Mélaouah su questo capolavoro è talmente impeccabile da autorizzare una domanda legittima: perché fin qui nessuno era riuscito a realizzarlo con altrettanta grazia e precisione? Conosco Mélaouah quanto basta da sapere che per lei il lavoro è questione di vita o di morte. Ciò la induce a uno studio preliminare dei suoi autori che avrebbe mandato Flaubert in brodo di giuggiole. Quindi anche per tradurre occorre studiare? Sicuro, soprattutto per tradurre. Non sono certo il primo a ritenere che la traduzione sia il gesto critico più compiuto a cui un testo possa essere sottoposto. Ecco perché, per farlo nel modo giusto, occorre avere un’assoluta dimestichezza con l’autore, i suoi libri, il suo universo morale. Tradurre Flaubert è un’impresa titanica. Volgerlo in italiano significa ingaggiare una battaglia con una prosa artificiosa fino al preziosismo il cui habitat ideale è il francese. Mélaouah ne è a tal punto consapevole da lavorare soprattutto sul ritmo, e quindi sulla scansione delle frasi. Lo sforzo da lei profuso per ricreare la vividezza espressiva flaubertiana non solo è encomiabile ma straordinariamente efficace. Senza stravolgerlo, senza attualizzarlo, lo adegua alle esigenze di un idioma fantasioso e musicale come il nostro. Il primo incaglio riguarda il lessico. Il vocabolario di Flaubert è vasto fino alla pedanteria. L’ossessione per la “parola giusta” lo obbliga a un’esattezza scientifica. Mélaouah asseconda questa passione lessicale senza mai indulgere a manierismi antiquariali. Ecco qui un esempio: «La carrozza prese un’andatura più veloce; il rumore delle ruote faceva voltare i passanti, il cuoio del mantice abbassato riluceva, il domestico se ne stava impettito, e i due avanesi uno accanto all’altro sembravano due manicotti di ermellino, posati sui cuscini». Per chi non lo sapesse, il “mantice” è un accessorio della carrozza e l’“avanese” è una razza canina.
Ma la vera scommessa è altrove. L’ostacolo insormontabile è il tono. Lo stile flaubertiano è allo stesso tempo poetico e prosaico. Per tenere a bada il lirismo si protegge dietro a un’armatura di ironia e disincanto. Ecco perché, per scandirne il ritmo, Mélaouah, dando fondo a tutta la sua bravura, ha accordato lo strumento a una melodia soave, beffarda e solenne. Lasciate che anche qui ve ne offra un saggio: «Il salone, simile a un parlatorio medievale, aveva le pareti rivestite di cuoio sbalzato; davanti a una rastrelliera di chibuk si ergeva uno scaffale olandese; e, sul tavolo, i cristalli di Boemia di vari colori facevano tra i fiori e la frutta come l’illuminazione di un giardino». Un lavoro non meno certosino è stato fatto sui dialoghi. Dare voce a una marmaglia del genere non è mica uno scherzo: da quel cialtrone di Arnoux a quel fanatico di Sénécal, passando per la frivola Rosanette e la snobissima Madame Dambreuse, ogni personaggio ha la voce che merita.
Le prime pagine
Ma veniamo al celebre attacco. Flaubert imbroglia deliberatamente le carte. A dispetto del classico romanzo coming of age che mette in scena l’avvento a Parigi del giovane provinciale, L’educazione sentimentale si apre su un ritorno. Frédéric si sta imbarcando sul piroscafo che da Parigi lo riporterà a casa, dalla madre, nella dimora avita di Nogent-sur-Seine. Basta questa piccola inversione per suggerire al lettore, in modo subliminale, che il nostro protagonista non è un audace avventuriero. Ciò non di meno la scena è soffusa di pathos. È l’alba di un’estate agli sgoccioli, la nave brulica di passeggeri trafelati. Per donare il giusto dinamismo al quadro, Flaubert, con una tecnica che gli è particolarmente congeniale, si affida a una specie di piano sequenza illustrando il paesaggio che si srotola lungo le rive del fiume. Un panorama che induce Frédéric a un primo sconsolato bilancio di vita. «Gli sembrava che la felicità meritata dalla sua anima eccelsa tardasse ad arrivare». L’incontro con un affascinante cialtrone di nome Monsieur Arnoux non è che la premessa dell’apparizione della di lui moglie che cambierà per sempre la vita dell’eroe. «Fu come un’apparizione» scrive Flaubert, e per darle il giusto risalto isola la frase con un a capo dei suoi. Un espediente che non lascia scampo.
Il bovarismo di Frédéric Moreau
Un vecchio adagio critico tende a identificare in Emma Bovary – l’eroina del capolavoro giovanile di Flaubert – una donna mediocre, sprovvista di gusto, minata da miserie morali e povertà intellettuali. Il che è vero, naturalmente. Anche il lettore più ingenuo non fatica a percepire le perfidie con cui l’autore invisibile non fa che punzecchiarla. Ebbene, ho sempre pensato che Frédéric Moreau non sia da meno. Più si valuta il suo temperamento, più emergono le affinità con Emma. Nessuno potrà negare che la sua dabbenaggine scantoni nel bovarismo. Anche lui coltiva velleitari sogni romantici. Anche lui ama collocare sé stesso in contesti esotici: a un certo punto si sogna accanto a Madame Arnoux in groppa a un dromedario. Ecco il genere di paccottiglia esotica che stimola la sua musa incolore: «Iniziò a scrivere un romanzo intitolato: Sylvio, il figlio del pescatore. Era ambientato a Venezia. Il protagonista era lui; la protagonista, Madame Arnoux. Si chiamava Antonia; – e per averla lui assassinava svariati gentiluomini, incendiava parte della città e cantava sotto il suo balcone, dove fremevano alla brezza le tende di damasco rosso di boulevard Montmartre». Più bovarista di così si muore. Come non sorridere delle fanciullaggini di questo mediocre scrittore in nuce? È Flaubert che ci invita a farlo. Gli è quasi impossibile non gettare sugli eroi dei suoi romanzi un sardonico sguardo sprezzante. La misantropia che lo anima è così implacabile da proibirgli di scrivere senza bava alla bocca. A muoverlo non è certo l’amore, ma un mix di rabbia e di odio. Un malanimo che sembra presagire le ire di Céline. Con la differenza che Flaubert, a dispetto di quel geniale epigono, è incapace di pietà.
Un altro vizio che assimila Emma a Frédéric è il feticismo. Per entrambi gli oggetti contano più delle persone. Ecco il nostro povero flâneur alle prese con la città che a ogni angolo gli evoca lo spettro dell’amata: «Guardava, nelle vetrine dei negozi, gli scialli di cachemire, i pizzi e i pendenti di pietre preziose, immaginandoli drappeggiati intorno ai suoi fianchi, cuciti al suo corpetto, sfavillanti fra la chioma nera. Sulle bancarelle delle fioraie, i fiori sbocciavano perché lui li scegliesse passando; nella vetrina dei calzolai, le pantofole di raso orlate di cigno sembravano aspettare il suo piede; tutte le vie portavano a casa sua: le carrozze sostavano nelle piazze solo per condurre più in fretta là; Parigi rimandava alla sua persona, e la grande città con tutte le sue voci riecheggiava, come un’orchestra immensa, intorno a lei». Leggendo certi passi uno si dice: quanto doveva divertirsi a scrivere certe cose! Quanto gli piaceva sfottere i suoi eroi, e per osmosi, sfottere sé stesso! Se c’è una cosa che Emma e Frédéric condividono con Flaubert, infatti, è l’amore per i monili di lusso, e il desiderio di evocarli con parole preziose.
Per certi versi Frédéric è persino più colpevole di Emma. Lui ha potuto godere di tutte le opportunità negate alla sua gemella sfortunata. È un maschio (e sappiamo quanto la Bovary invidi i componenti dell’altro sesso), è di buona famiglia, può vivere tranquillamente a Parigi (città cui Emma non avrà mai accesso), a un certo punto eredita pure una cospicua fortuna che fa di lui un dandy alla moda. E ciò non di meno la sua inettitudine è tale da non consentirgli di elevarsi al di sopra della turba, né di realizzare una sola delle sue ambizioni: artistiche, mondane o amorose che siano. Per avere un’idea della sua inerzia si valuti il seguente passo: «Frédéric assistette, in piedi, a interminabili partite di biliardo, innaffiate da parecchi boccali di birra; – e rimase lì fino a mezzanotte, senza sapere perché, per viltà, per stoltezza, nella confusa speranza che accadesse qualcosa di propizio al suo amore». Prima vuole diventare scrittore, poi decide di fare il pittore. Ma non ha la stoffa né per una cosa, né per l’altra, per non dire di tutti gli altri progetti vanagloriosi che coltiva per un giorno o due. Al contrario del suo creatore, è sprovvisto di costanza e disciplina, è volubile e schiacciato dalla sua indolenza.
L’ombra di Balzac
L’educazione sentimentale è il romanzo della noia e dell’irresolutezza, degli abbandoni immotivati, i tempi morti, le speranze venute meno per un soffio. Ed è anche il romanzo delle amicizie virili, delle oziose diatribe ideologiche, degli amori postribolari. Ma sopratutto è il romanzo che meglio descrive il passaggio dall’egotismo romantico all’egoismo borghese. In poche parole, è il romanzo di Parigi: di quella città-fogna che Walter Benjamin avrebbe battezzato la «capitale del XIX secolo». Che dietro si agiti l’ombra di Balzac è palese. Lo capisci da certe considerazioni antropologiche: «Quasi tutti gli uomini che erano lì avevano servito come minimo quattro governi; e si sarebbero venduti la Francia, o il genere umano, per garantirsi il patrimonio, risparmiarsi una disgrazia, un rovescio di fortuna, o anche per più semplice bassezza, per istintiva adorazione della forza». Di rado Flaubert si esprime in modo così categorico su un’intera categoria. Di norma preferisce concentrarsi sul singolo individuo i cui impulsi condensa in frasi icastiche. «Ancora piccola, aveva provato uno di quegli amori infantili che hanno insieme la purezza di una religione e la violenza di un bisogno». Questo sì che è un Flaubert al meglio della sua ispirazione. Resta tuttavia il fatto che Balzac gli fornisce il modello. Per capirlo basta dare un’occhiata alla prima versione dell’Educazione. Benché abbia solo vaghe somiglianze con il romanzo futuro, niente come il brogliaccio giovanile mostra quanto Flaubert aspirasse a creare un eroe capace di rivaleggiare con Rastignac. Cosa resta di questa aspirazione nell’opera matura, quella che conosciamo? Ben poco. Privo della vitalità e dell’improntitudine di Rastignac, Frédéric è schiavo della sua inettitudine. D’altro canto, se Balzac è attratto dalla straordinaria volubilità della società francese del tempo, Flaubert ne registra scorato la sostanziale implosione. Il destino di ciascuno di noi è segnato, siamo quello che siamo e nessuno può farci niente. Non certo Frédéric, minato com’è da una natura inesorabilmente contemplativa e rinunciataria.
Questione di stile
Parafrasando Nabokov, si può dire che la biografia di uno scrittore non sia altro che la storia dell’evoluzione del suo stile. Se ciò vale per tutti, è tanto più vero per un artista come Flaubert, la cui biografia è così povera di eventi e il cui impegno stilistico tracima nella follia. Com’è stato notato da esegeti più titolati di me, la prosa dell’Educazione è diversa da quella della Bovary. È più netta e sorvegliata, refrattaria alle roboanti similitudini degli esordi. E tuttavia si tratta di una trasformazione virtuosa e ineluttabile che prefigura la stringatezza del capolavoro incompiuto: Bouvard e Pécuchet. Il lirismo si è, per così dire, disossato, senza perdere incisività. È come se Flaubert, influenzato dalla natura torpida del suo eroe, concedesse più spazio all’introspezione e alle parti descrittive, a scapito dell’azione. Se la Bovary è il romanzo della campagna: paesaggi rupestri, afrori pungenti, repentini cambi di stagione; L’educazione sentimentale è il romanzo della città: i tableaux metropolitani si susseguono a intervalli cadenzati, gli effluvi dei boudoir si mescolano all’aria viziata degli atelier e alle brezze che increspano il fiume. Come in ogni metropoli, il lezzo del denaro si avverte ovunque: nelle soffitte dei bohémien indigenti come nei palazzi dei ricchi banchieri.
L’incedere ternario delle frasi, notato a suo tempo da Albert Thibaudet, conferisce alla prosa un ritmo felpato e implacabile. Eccone qua un esempio mirabile: «Un’altra sete gli era venuta, la sete delle donne, del lusso e di tutto ciò che comporta la vita parigina. Si sentiva un po’ frastornato, come un uomo che scende da una nave; e nell’allucinazione del primo sonno vedeva passare e ripassare di continuo le spalle della Popolana, i fianchi della Débardeuse, i polpacci della Polacca, la chioma della Selvaggia». Per rendere tutto più gustoso e caratteristico Flaubert fa un uso massiccio dell’imperfetto indicativo, di sostantivi declinati al plurale e dei suoi celebri punti e virgola.
Il culto delle immagini
C’è chi ritiene che il tallone di Achille di Flaubert sia la voluttà con cui si abbandona alle immagini, il modo in cui il suo sguardo le carezza, neanche fossero pietre preziose. Per averne idea basta raffrontare la corsa dei cavalli in Anna Karenina di Lev Tolstoj alla scena dell’ippodromo dell’Educazione. In un certo senso, sono episodi centrali dei rispettivi romanzi, forieri di future disavventure sia per l’eroina tolstoiana che per l’eroe flaubertiano. Se l’attenzione di Tolstoj è volta alle emozioni di Anna (le ansie, i tremori, l’incapacità di tenere a bada i suoi impulsi impudichi), lo sguardo di Flaubert indugia sui guanti immacolati dei giovani dandy in tribuna. È come se il gusto decadente per il dettaglio prendesse il sopravvento sulle istanze emotive. Bisogna dare a Tolstoj ciò che è di Tolstoj: la sua capacità di entrare nel cuore dei personaggi è impareggiabile. Quanto a Flaubert, il suo modo di intendere il realismo è decisamente più inflessibile. L’alacrità con cui dipinge i suoi bozzetti, perdendosi in impercettibili variazioni cromatiche, rivelano una grazia impressionista che non ha eguali nel romanzo francese del XIX secolo. Per amarlo occorre stare al suo gioco duro, freddo e inflessibile.
Un romanzo sgradevole
L’educazione non è un romanzo amabile. Scritto con troppa maestria, statico fino all’esasperazione, indulge a un eccesso di disincanto. Pare quasi che lo stile sia la sola cosa che Flaubert prende sul serio. Il resto gli sembra vano, privo di slancio, desolatamente inutile. Anche qui valga il paragone con Tolstoj. Se il duello tra Pierre Bezuchov e Dolochov in Guerra e pace offre al grande romanziere russo il pretesto per indagare la natura complessa e ambivalente dei suoi personaggi, il duello mancato tra Frédéric e Cicy nell’Educazione si configura come una grottesca pantomima, una commedia degli equivoci messa in scena al solo scopo di mostrare la grettezza dei contendenti e del loro seguito. Non sorprende che alla sua uscita in libreria, il 17 settembre 1869, L’educazione ottenga un numero così esorbitante di pareri negativi. Alcuni dei quali lambiscono l’insulto. Valga per tutti l’articolo di Barbey d’Aurevilly che definisce il romanzo un’opera di inqualificabile volgarità. Émile Zola è uno dei pochi a difenderlo e ad apprezzarlo. Ma è una mosca bianca. Per quasi tutti gli altri L’educazione è un disastro, un oltraggio all’arte del romanzo. Perché tanta animosità contro un capolavoro di tale levatura? Forse perché Flaubert lo ha scritto con qualche decennio di anticipo. I suoi contemporanei non sono pronti a sorbirsi una tale lezione di nichilismo. Se la morte di Emma Bovary, per quanto grottesca potesse sembrare, aveva ancora il merito di fornire al lettore la catarsi necessaria a mettersi l’anima in pace, la maturità cui Frédéric Moreau approda stancamente lascia l’amaro in bocca. L’ultimo incontro con la donna amata non è che l’estrema perfidia inflitta da Flaubert ai suoi mediocri eroi. Lui ha superato la soglia della mezza età, lei ha i capelli bianchi. Che sfacelo! «Frédéric ebbe sentore che Madame Arnoux fosse venuta per concedersi; e di nuovo in preda a un desiderio più forte che mai, furibondo, sfrenato. Sentiva però qualcosa di inesprimibile, una repulsione, e come il terrore di un incesto. Lo frenava anche un altro timore, quello di provare disgusto, poi. E d’altra parte, che situazione imbarazzante sarebbe stata! – e, insieme per prudenza e per non svilire il suo ideale, si voltò e prese a farsi una sigaretta». Come non pensare a Anton Cechov? Sono pochi gli scrittori capaci di dare conto della vita non vissuta e di una sorte così beffarda e senza scampo