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 2024  marzo 17 Domenica calendario

Biografia di Marlon Brando

La vita
Marlon Brando nasce a Omaha, in Nebraska, il 3 aprile 1924 e muore a Los Angeles, California, il 1° giugno 2004. Espulso da diverse scuole, vuole fare l’attore. Nel 1943 è a New York e con Stella Adler si dedica al metodo Stanislavskij (approccio alla recitazione basato sull’immersione totale nel personaggio). Nel 1947 recita a teatro per Elia Kazan in Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams, nel ruolo che nel 1951 poterà al cinema
e gli regalerà la prima nomination agli Oscar. Il debutto al cinema è del ’50 con Il mio corpo ti appartiene di Fred Zinnemann (foto qui sotto). Dopo Viva Zapata! di Kazan (1952) e Giulio Cesare di Joseph L. Mankiewicz (1953), arrivano il chiodo e la Triumph Thunderbird de Il selvaggio di László Benedek (1953). La consacrazione arriva con l’Oscar vinto per Fronte del porto (1955), sempre di Kazan. Nel 1961, dirige il suo primo, e unico, film: I due volti della vendetta. Dopo varie delusioni, nel 1972 la rinascita arriva con Il padrino di Francis Ford Coppola (secondo Oscar, non ritirato per protesta contro le ingiustizie verso i nativi americani) e Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Dopo il ruolo del colonnello Kurtz in Apocalypse Now di Coppola (1979), Brando si ritira su un’isola del Pacifico per tornare a fine anni Ottanta. L’ultima apparizione è nel 2001 in The Score di Frank Oz (a pagina 35, Brando è in scena con Robert De Niro)
Gli omaggi
La 42ª edizione del Torino Film Festival, che torna dal 22 al 30 novembre diretto per la prima volta da Giulio Base, dedica a Marlon Brando il manifesto e una grande retrospettiva: 24 film dall’esordio del 1950 al 1996. La foto del poster è del ’72, realizzata da Eva Sereny a Parigi. Fino al 31 marzo è in corso la rassegna della Cineteca di Bologna Brando 100: questa sera, domenica 17, al Cinema Modernissimo ci sarà Missouri di Arthur Penn; il 27, Ultimo tango a Parigi; e poi Apocalypse Now. Final Cut (il 29) e Il padrino (il 31)
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Marzo 1966. Pauline Kael, leggendaria critica cinematografica e cronista di cose hollywoodiane, scrive sull’«Atlantic» un lungo pezzo intitolato programmaticamente Marlon Brando: An American Hero. Nel saggio dice due cose: la prima che, secondo lei, la carriera di Brando è finita. Ed è abbastanza sorprendente, considerato che l’attore ha solo 42 anni, e che il suo esordio al cinema è del 1950. Naturalmente Kael sta prendendo una cantonata (non l’unica, nella sua lunga attività): Brando farà ancora film monumentali, da Il padrino a Ultimo tango a Parigi e Apocalypse Now. Ma la sua asserzione, per quanto sia una profezia sballata, arriva alla fine di un ragionamento acuto e argomentato rispetto al ruolo che Brando è venuto a incarnare nel cinema americano; ed è questa la seconda, e più importante, questione. Secondo Kael il problema è che il cinema hollywoodiano non sa sfruttare un talento come quello di Brando: «When you are larger than life you can’t just be brought down to normality», scrive. «Quando sei “più grande della vita” non puoi essere costretto alla normalità».
«Larger than life» è da sempre l’espressione che caratterizza la natura del cinema americano e Marlon Brando ne è l’icona perfetta, perché possiede come pochi quella dote che trasforma un grande attore in un divo, con tutto quel che ne consegue anche sul piano della confusione tra immagine pubblica e vita privata. Ma è difficile essere sempre «più grandi della vita». Se si considera la sua carriera, è proprio questa la cosa che balza agli occhi: la coesistenza di film e ruoli straordinari con una pletora di sciocchezze in cui spesso – un po’ come Orson Welles – Brando non sembra nemmeno prendersi sul serio, come se stesse facendo una parodia di sé stesso. E pare che ne sia ben consapevole perché in cambio si fa pagare cachet esosissimi, che servono a sostenere uno stile di vita non meno larger than life delle sue interpretazioni: tre mogli, un numero sterminato di amanti, undici figli tra ufficiali, naturali e adottati (di cui una morta suicida), la bisessualità dichiarata; e mille altre facce di un mito, dall’attivismo politico all’intrattabilità sul set.
Nota Kael: «Forse Brando è stato spinto presto a questa auto-parodia a causa della forza della sua immaginazione e del magnetismo che lo rende un’espressione così intensa dei conflitti dello spirito americano. È più facile farsi accettare tramite la caricatura dei tuoi atteggiamenti e delle tue aspirazioni precedenti». Insomma, il Brando degli esordi è uno specchio in cui il maschio americano si può riflettere in maniera così precisa da causare, con tipica schizofrenia made in Usa, sia ammirazione che fastidio.
In quel senso, nel 1966 l’immagine costruita con i suoi ruoli in Un tram che si chiama desiderio, Il selvaggio, Fronte del porto si era davvero probabilmente consumata; e con essa le magliette attillate e i blusoni da motociclista, l’applicazione ossessiva del «metodo» dell’Actors Studio, nonché il suo ambiguo sex appeal. Ma, ovviamente, il suo talento era ancora tutto lì.
Quattro anni dopo l’articolo di Kael, Brando è sull’orlo del ritiro definitivo e lo dichiara apertamente. Lo salva un regista italiano, Gillo Pontecorvo, che ne fa il protagonista di Queimada, cucendogli addosso un ruolo «in nero»: un agente dell’Impero britannico che, intorno al 1850, briga prima per provocare l’insurrezione popolare in un’isola dominata dai portoghesi e poi la reprime per farla diventare una colonia inglese. Ancora non lo si capisce, ma saranno proprio i personaggi negativi a diventare la cifra del Marlon Brando che «rinasce» negli anni Settanta. I suoi ruoli più famosi raccontano un flirt ininterrotto con il male e con il disagio: don Vito Corleone, un mafioso freddo e calcolatore; Paul, un «maledetto» insieme amante e stupratore; Walter Kurtz, un militare impazzito che sprofonda nel gorgo dell’orrore. E, per quanto dimenticato, aggiungerei a questa lista il Peter Quint di The Nightcomers (Improvvisamente, un uomo nella notte) di Michael Winner, che racconta la storia del depravato giardiniere il cui spettro appare ai due ragazzi di Il giro di vite di Henry James: una specie di prequel ante litteram, per il quale Brando vinse un Bafta, l’Oscar inglese. Nessuno di loro si redime, contrariamente ai personaggi degli anni Cinquanta, primo fra tutti il Terry Malloy di Fronte del porto. È come se l’osservazione di Pauline Kael sulla mancanza di ruoli adatti al carisma di Brando trovasse, nel decennio successivo, una risposta in controluce: l’unica grandezza che può esprimere, a quel punto, è quella della dannazione.

È interessante notare che in questa nuova dimensione Brando si prende uno spazio del tutto originale: tecnicamente, non è il vero protagonista né di Il padrino né di Apocalypse Now, per esempio, ma ne è la presenza che determina tutta la storia e l’atmosfera. Diversa la situazione, naturalmente, per Ultimo tango a Parigi: ma si tratta di un film europeo, libero dagli schemi produttivi e narrativi di Hollywood. Fin troppo, come dimostrerà poi la tribolata storia del film. Personalmente, da regista, sono colpito dal fatto che Il padrino e Ultimo tango a Parigi uscirono nello stesso anno, il 1972: è difficile immaginare due personaggi così agli antipodi. Da una parte un siciliano sessantenne in America, dai modi lenti e dall’eloquio sussurrato, sempre impeccabile, mellifluo e pericoloso; e con quell’indimenticabile mascella modificata da un attrezzo prostetico. Dall’altra un giovanile americano di mezza età in Europa, dall’aria esistenzialista e il capello lungo, apparentemente forte ma fragilissimo dentro, tanto da precipitare in una vertigine del sesso che non risparmia nulla, compresa la famosa e controversa scena del burro (un’idea di Brando, peraltro, raccolta al volo da Bertolucci senza dirlo alla povera Maria Schneider).
Sembra davvero che Marlon Brando, come attore, sia uno strumento capace di suonare qualsiasi cosa, laddove ci sia un regista alla sua altezza: cosa che purtroppo non gli è sempre capitata. Anche perché di suo, quando gli viene concessa mano libera sui copioni o sulla messa in scena, il buon Marlon non dimostra di possedere il talento e la visione che sono le prerogative di un regista vero.
Il paradosso è che in questi film Brando fu sempre, per i registi e i produttori, una seconda se non terza scelta, o peggio. Per Il padrino si era pensato, nell’ordine, a Ernest Borgnine, Edward G. Robinson, Orson Welles, George C. Scott, Burt Lancaster, Laurence Olivier e perfino Gian Maria Volonté. Mentre Bertolucci arrivò a lui soltanto dopo il rifiuto di Jean-Louis Trintignant, Jean-Paul Belmondo, Alain Delon. Quanto al colonnello Kurtz, fu solo l’indisponibilità di Jack Nicholson a dare una chance a Brando. Una combinazione di caso e talento che non può che essere ascritta alla cosiddetta serendipità, dato che ci ha regalato dei capolavori del cinema. È peraltro noto che Brando si presentò sul set di Apocalypse Now terribilmente sovrappeso, tanto che Coppola fu costretto a fermare il set due settimane per riscrivere completamente la sceneggiatura, dato che c’erano scene che, con quella stazza, l’attore non era più in grado di girare. È come se per lui l’essere larger than life avesse preso una deriva psicosomatica, facendolo letteralmente diventare il monumento di sé stesso anche da un punto di vista fisico. Quando muore, Brando è arrivato a pesare 150 chili. Eppure cosa sarebbe Walter E. Kurtz senza quella mole imbarazzante, che costrinse Coppola a girare tutte le sue scene nella penombra e senza quasi mai farlo alzare dalla stuoia su cui è spiaggiato?

Proprio sul set di Apocalypse Now la moglie di Coppola, Eleanor, iniziò a girare un backstage che venne poi finalizzato soltanto nel 1991 da George Hickenlooper e Fax Bahr col titolo Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse (in Italia uscì due anni dopo col titolo Viaggio all’inferno). La parte finale del documentario racconta l’arrivo e la permanenza di Brando nella generale e leggendaria follia di quel set. Il montaggio propone anche alcuni «scarti» (o outtakes per gli anglofili): vale a dire scene che poi non sono state utilizzate. Sono affascinanti da vedere perché Coppola, ormai sull’orlo della disperazione per l’impossibilità di gestire l’attore, ha deciso di improvvisare, lasciandogli libertà di parola. Vista la sua sostanziale immobilità, la macchina da presa si limita a seguirlo in primo piano, qualsiasi cosa dica o faccia. Un paio di questi scarti sono particolarmente interessanti e, per quel che mi riguarda, rivelatori più di quanto lo sia una scena madre. In uno Brando sta parlando della sete di sangue dell’uomo; si ferma, medita come se gli fosse venuto un pensiero che lo turba, balbetta pensieroso e alla fine dice: «Mi è finito in bocca un insetto»; e lo sputa. In un’altra elucubra su come l’uomo debba accettare anche la sua parte malvagia; quindi si alza, si ferma in controluce, statuario, in un silenzio gravido di attese, e lo si sente dire: «Per oggi non mi viene in mente nient’altro». La cosa formidabile è che in entrambe le situazioni il passaggio dalla finzione di Kurtz alla realtà di Brando non esiste: la faccia, l’espressione, la presenza dell’attore sono talmente forti che ti sembra che anche la mosca che ha ingoiato sia finita in bocca a Kurtz e faccia parte della messa in scena. Quello che in un altro contesto e con un altro attore sarebbe un blooper, una scena uscita male che fa ridere, qui evoca solo rispetto e quasi una forma di venerazione.
Chi fa cinema sa che di questa impalpabile materia è fatto un film, di una verità fluttuante tra l’apparenza e la rivelazione di un altro mondo; e che l’attore può esserne il medium, se i numi gliene hanno concesso il talento. Può sembrare assurdo, ma è proprio in un contesto così apparentemente triviale che si celebra l’inimitabile grandezza di Marlon Brando e davvero si capisce cosa sia l’aura che possiedono i veri divi del cinema.