La Lettura, 17 marzo 2024
La giornalista che sa tutto dei narcos
Il primo a commuoversi è stato «La Puerca», sicario del Cartello del Golfo dal soprannome poco promettente: la scrofa. «Mi stava elencando quanti ne aveva uccisi, come aveva fatto, il sangue, i dettagli. L’ho interrotto: “Non voglio sapere che cosa fai ma perché lo fai”. Si è messo a raccontarmi di quando undicenne assistette allo sterminio della famiglia, allo stupro della madre, di come ancora bambino pieno di rabbia avesse appreso a sparare. E gli sono venute le lacrime agli occhi».
Anabel Hernández, ovvero la donna che fa piangere i narcos. La giornalista d’inchiesta più famosa (e minacciata) del Messico, che mette a nudo boss, gregari, collaboratori e corrotti, rivelandone i traffici e le connessioni. E al tempo stesso svelando una realtà intima e molto prosaica sotto il mito del potere assoluto: «Sono uomini ridicoli, brutti, grassi, insicuri, complessati, pessimi amanti». È attesa al Festival Treviso Giallo.
Molto diversi dai personaggi cattivi ma affascinanti della fiction?
«La disinformazione creata dalle serie tv mi pare molto dannosa. Si finisce per provare empatia per questi mostri, che in verità non hanno nulla di charmant. La loro violenza è proporzionale alla loro insicurezza. Vale per tutti gli uomini con scarsa autostima ma per i narcos, che rappresentano il machismo all’ennesima potenza, vale più che per ogni altro. E io glielo dico in faccia».
Come la prendono?
Sullo schermo del computer, in collegamento da una località italiana che preferisce non rivelare, Hernández imita un’espressione di stupore: «Finisce sempre che si tolgono la maschera, e alcuni, come “La Puerca”, piangono».
Ma perché criminali feroci e scaltri si affidano proprio a lei che è nota per non fare sconti? In quasi vent’anni di inchieste, ha avuto accesso a fonti di primo livello tra i narcotrafficanti. E in molti casi sono stati loro stessi a cercarla. Come se lo spiega?
«Confesso che non ho una risposta precisa. Posso dire che è il risultato di un lavoro cominciato attorno al 2004, quando ho iniziato a indagare sul Cartello di Sinaloa. Non ne sapevo nulla, ho ricostruito organigrammi e traffici, certo. Le vicende, la violenza, i tipi di droga. Ma ben presto mi sono concentrata soprattutto sul come: come un’organizzazione criminale è riuscita a restare al potere per cinquant’anni? Come contadini semianalfabeti come “El Mayo” Zambada, “El Chapo” Guzmán o Arturo Beltrán Leyva hanno conquistato tanto potere? Credo che sia per questo che mi cercano. Molti colleghi uomini si interessano al sangue, alle pallottole, alla cocaina. Io voglio capire come funziona il sistema criminale».
E loro vogliono spiegarglielo?
«Il sistema funziona con il sostegno delle amministrazioni a tutti livelli, dal sindaco al governatore al presidente della Repubblica. Quando i narcos si sentono sfruttati dal governo, spremuti come limoni e poi sacrificati, è allora che mi cercano. O almeno spesso è andata così».
Dunque, i cartelli della droga sono legati al potere politico...
«Indissolubilmente. Il Cartello lavora assieme al governo. A volte ne è un’appendice, a volte è il governo a esserlo: l’uno non può esistere senza l’altro. Il cartello dipende dalla protezione e dalla complicità di tutti i livelli di governo, dal locale al nazionale, il che comporta ovviamente anche la compiacenza della polizia, dell’esercito, della marina, il controllo degli aeroporti, delle dogane, eccetera. È questo che gli garantisce stabilità e gli permette di espandere gli affari».
Questa relazione indecente è continuata anche sotto il mandato di Andrés Manuel López Obrador (Amlo), che con il suo movimento Morena sembrava aver rotto con il passato e con le connessioni dei vecchi partiti Pri e Pan?
«Ho pubblicato il 30 gennaio scorso un servizio esclusivo che prende spunto da un’inchiesta Usa (della Dea, l’agenzia antidroga, ndr) in cui si dimostra che il Cartello di Sinaloa finanziò la prima campagna di Amlo nel 2006. La risposta dunque è sì. Di più: López Obrador passerà alla storia come il presidente che ha legalizzato il narcotraffico. Quando dice: “I narcos sono popolo” fa danni a lungo termine (riferimento a uno scambio di battute a Oaxaca con un cittadino che chiedeva l’invio dei militari contro la criminalità organizzata: “Non si manda l’esercito a reprimere il popolo”, ha risposto Amlo; “I narcos sono popolo?!”; “Sì, sono popolo, tutti sono esseri umani”, ndr).
Dalla marijuana al fentanyl, l’evoluzione del Cartello di Sinaloa è oggetto della sua nuova inchiesta, in fase di scrittura. Quali caratteristiche ha il gruppo criminale oggi, dopo l’estradizione negli Usa e la condanna all’ergastolo del Chapo?
«È nelle mani dei figli, i cosiddetti “Chapitos”: non più ignoranti, come i boss precedenti, alcuni addirittura laureati, ma ugualmente brutali e persino più violenti. Io li chiamo yuppie-narcos, perché non vivono solo del denaro ereditato ma hanno ideato nuovi affari criminali di successo, con un notevole sesto senso sull’andamento del mercato».
Di qui il business del fentanyl, la droga sintetica con cui viene tagliata l’eroina e che sta provocando una strage senza precedenti negli Stati Uniti...
«Esatto. E poi il furto di combustibile, il traffico di esseri umani, l’estorsione alle miniere... Elementi a loro molto vicini mi spiegano che vogliono diventare come la mafia russa: guadagnare da ogni attività sul territorio, lecita o illecita».
In questo scenario di violenza machista, che ruolo hanno le donne? I suoi libri più recenti sono sulle «señoras» del narcotraffico.
«A oggi non ne esiste una con un ruolo di comando. Queste mogli, madri, figlie, sorelle sono state allevate in una cultura profondamente maschilista e la perpetuano. In questo modo la catena di violenza non si rompe».
Emma, però, la più nota delle donne del Chapo, ha tollerato tutto, tranne i racconti degli stupri da parte del marito. Lei la incontrò in una celebre intervista del 2016 e siete rimaste in contatto: come spiega questa «debolezza»?
«Credo che abbia a che vedere con la maternità. S’è rivelata un personaggio complesso, istrionico. Dico sempre: stiamo a vedere quel che farà. Ma tra le menzogne e mezze verità che mi ha raccontato, i due momenti in cui l’ho vista con gli occhi lucidi sono stati quando mi ha parlato delle sue figlie. E della nostalgia per il mondo semplice della sua infanzia».