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 2024  marzo 17 Domenica calendario

Sulla lingua italiana e sulle lingue in genere

A separarci c’è solo una piazza. Nel senso che la sede dell’Istituto universitario di studi superiori dove insegna Andrea Moro dista solo pochi passi da quella dell’Università di Pavia dove insegno io. Ma al tempo stesso è come se i nostri studi guardassero alla lingua da due punti di osservazione molto distanti. Da questa parte, la storia della lingua italiana nel suo svolgersi attraverso i secoli; dall’altra, il linguaggio nel suo rapporto con il cervello umano in una dimensione che va oltre le singole lingue. Microcosmo e macrocosmo, si potrebbe quasi dire: ma, in fondo, sempre sotto a uno stesso cielo. «Lo sai quanto cielo c’è nelle parole?», domanda a un certo punto uno dei personaggi del suo romanzo Il segreto di Pietramala (La nave di Teseo, 2018). «Parlo dunque sono», afferma in quello stesso romanzo il protagonista: «La vita è il linguaggio, anzi vive sono le lingue».
GIUSEPPE ANTONELLI — Parlo dunque sono è anche il titolo di un tuo libro pubblicato la prima volta da Adelphi nel 2012 e ora ripubblicato in una versione molto più ampia. Uno dei capitoli – quello dedicato a Noam Chomsky, il celebre linguista che è stato uno dei tuoi maestri – si apre con questa suggestiva citazione: «Il linguaggio è più simile a un fiocco di neve che al collo di una giraffa». Partirei da qui.
ANDREA MORO — Sono molto affezionato a questa immagine. Perché in nuce contiene quel tipo di informazione che Chomsky dice essere al centro del linguaggio umano, cioè la cosiddetta infinità discreta. Lo specifico del linguaggio umano per lui è il fatto di essere costruito da tanti mattoni – cioè le parole – che possono generare significati diversi e potenzialmente infiniti ricombinandosi. In questo senso la grammatica è simile alla matematica. Io non so se anche tu da bambino giocavi come me a pensare al numero più grande...
GIUSEPPE ANTONELLI — Qualcosa del genere. Facevo le moltiplicazioni per due: cominciavo da un numero e in modo un po’ ossessivo andavo al doppio, al doppio, al doppio, al doppio, finché riuscivo a tenere il conto a mente.
ANDREA MORO — Ecco, allora mi capisci. Se è vero che potenzialmente possiamo contare fino all’infinito, allora nessuno potrebbe ammettere che gli esseri umani per i primi ventimila anni hanno contato fino a 17, poi fino a 22, poi fino a 123. L’infinito avviene tutto o niente: non arriva a blocchi. Il paragone tra il collo della giraffa e il fiocco di neve si capisce, a questo punto. Perché il fiocco di neve non è il prodotto di un’evoluzione: è una specie di soluzione istantanea che una gocciolina d’acqua trova data la temperatura, la pressione, la forza di gravità. E non è che i fiocchi di neve erano più semplici nel Cinquecento o erano ancora più semplici quando nevicava sulla testa di Cesare. Ogni essere umano contiene una bomba filosofica ed empirica: cioè uno strumento finito, selezionato dall’evoluzione, che produce un oggetto infinito la struttura del quale non può evolversi. E quest’oggetto è il linguaggio.
GIUSEPPE ANTONELLI — Però, se rimaniamo nei numeri, c’è la questione dello zero. Non tutte le culture hanno lo zero: nei numeri latini, per dire, lo zero non c’era. La nostra parola infatti viene dall’arabo, con questa cosa interessante: che dalla stessa parola araba scifr, in origine indicante il vuoto, sono nate in italiano sia zero sia cifra.
ANDREA MORO — Ho svolto una ricerca con Richard Kayne (uno dei tre personaggi su cui si concentrano i nuovi capitoli del libro) ed è emerso che la parola zero — in rapporto con il cervello umano – non è sovrapponibile con il concetto di zero algebrico e numerico. Allora non c’è da sorprendersi se non tutte le culture hanno lo zero algebrico: è perché il sistema numerico e quello linguistico sono due capacità scollate, non sovrapponibili.
GIUSEPPE ANTONELLI — Scollate nel senso della colla e non del collo, come quello della giraffa. Ma appunto: dalla giraffa all’elefante. Non pensare all’elefante! recita il titolo di un libro di George Lakoff. Inutile provarci, però, perché ogni volta che si sente questa frase viene subito in mente un elefante. Con Lakoff, allievo ribelle di Chomsky, si è divulgato il concetto di framing: il modo in cui qualcosa viene detto influenza il nostro cervello e dunque i nostri comportamenti. Di questo io sono piuttosto convinto, ma mi sembra che tu non lo sia altrettanto.
ANDREA MORO — La cosa convince anche me, se però sostituisci alla lingua il linguaggio. Io sono convinto che sia il linguaggio a condizionare il pensiero, non le singole lingue. Quello che non è sperimentalmente provato, anzi è provato il contrario, è che a seconda della lingua percepisci la realtà in modo diverso e ragioni in modo diverso. Il fatto è che la gente ha con la lingua un rapporto di tipo emotivo e tende a credere l’opposto.
GIUSEPPE ANTONELLI — È quello che Luca Serianni chiamava «il sentimento della lingua»: l’attaccamento alla propria lingua materna come un legame affettivo quasi viscerale.
ANDREA MORO — Ma l’atteggiamento irrazionale agisce anche verso le altre lingue. E infatti trovi chi ti dice: è chiaro che per i tedeschi, con quella parola — Tod — la morte è più dura, mentre noi abbiamo morte. Ma non può essere vero.
GIUSEPPE ANTONELLI — Questo sicuramente no. Però c’è quel famoso saggio del linguista Leo Spitzer sul fatto che in tedesco luna è maschile e sole femminile, e questo implica – rispetto alle lingue neolatine – tutto un capovolgimento dell’immaginario.
ANDREA MORO — È vero: se invece che Babbo Natale ci fosse Mamma Natale, ci sarebbe tutto un immaginario diverso. Ma è l’immaginario culturale che varia, non la percezione della realtà. Colori, sapori, odori: la percezione che viene dai nostri sensi non è condizionata dalla grammatica, e lo stesso vale per il ragionamento logico. Eppure, noi abbiamo – direi per istinto – un’idea irrazionale del rapporto tra le lingue. Questa cosa Dante l’aveva capita: è evidente proprio in quel passaggio del De vulgari eloquentia in cui nomina Pietramala. Quando in tono ironico dice che anche gli abitanti della minuscola Pietramala pensano che la loro sia la lingua migliore.
GIUSEPPE ANTONELLI — Però Dante lì dice anche un’altra cosa: che la grammatica è qualcosa di artificiale. La grammatica – secondo una convinzione dell’epoca – era solo quella latina e il latino era considerato una lingua artificiale, creata dai dotti per avere uno strumento di reciproca comprensione. Della lingua materna, invece – del volgare, appunto – Dante dice che si apprende senza nessuna regola. Se nel Convivio aveva affermato che per questo il latino era superiore, lì rovescia la cosa e sostiene che è superiore il volgare in quanto lingua naturale. Poi smette di pensare teoricamente e usa il suo volgare fiorentino per scrivere la Divina Commedia. E questa mi sembra la prova più eloquente della potenza di quella lingua materna.
ANDREA MORO — In uno dei nuovi capitoli del libro, racconto di Cartesio, invitato dal grande matematico e filosofo suo amico padre Mersenne, a confutare un tizio che si vantava di aver inventato una lingua che – diceva – si imparava in sei ore. Cartesio nella sua lettera di risposta, che ovviamente demolisce l’invenzione, dice però tre cose formidabili. La prima è: questo qui vuol vendere la merce. E la sua irritazione dovrebbe essere la nostra oggi, quando ci vogliono vendere della merce – dei programmi per computer – che è utilissima, ma non serve certo per capire meglio come funziona il linguaggio. La seconda cosa detta da Cartesio è straordinaria. Sostiene infatti che l’unica lingua che davvero si possa apprendere in sei ore sarebbe una lingua in cui i concetti si possano mettere in un ordine simile a quello che lega tra loro i numeri. Se io dico 17, tutti sanno che il numero che segue è il 18. Ma qual è il concetto che segue il concetto di poltrona? E poi Cartesio dice una terza cosa: forse è bene che il mistero della lingua rimanga intatto, almeno in parte. Oggi si ha l’illusione che, disponendo di una quantità sterminata di dati, questo famoso dizionario nel quale i concetti sono messi in una successione naturale come quella dei numeri te lo possa costruire la statistica: ma non è così.
GIUSEPPE ANTONELLI — Però è anche vero che all’interno di una statistica molto ampia, questi Large Language Models – cioè queste presunte intelligenze artificiali che si basano su un’enorme quantità di dati – il linguaggio riescono a simularlo proprio basandosi sulla ricorrenza statistica. Perché noi non sappiamo – con le parole – che dopo 17 verrà sempre 18, però sappiamo che dopo buon verrà probabilmente giorno, pomeriggio o compleanno. E a un certo livello questa prevedibilità fa sì che queste macchine possano simulare la produzione di linguaggio. Ma siamo sicuri che rimarranno sempre «pappagallini stocastici», come qualcuno li ha definiti, o invece arriverà un momento in cui davvero potranno creare linguaggio?
ANDREA MORO — Qui sta il punto. A noi linguisti non interessa simulare, interessa comprendere come funziona il linguaggio. Io uso tutti i giorni simulatori come i traduttori automatici. Utilissimi: ma mai e poi mai direi che funzionano come la mia testa. La prima differenza è la libera scelta. Se io ora dico ad esempio fragoline di bosco, non c’è nulla intorno a me che mi abbia spinto a dire questo invece di turboreattore. Sono totalmente libero di scegliere.
GIUSEPPE ANTONELLI — Però se io chiedo a Chat-GPT di dirmi una parola a caso, lui (o lei) me la dice...
ANDREA MORO — Ma non la sceglie, la pesca a caso. E poi non sa mentire: le macchine non mentono e non hanno ironia. E comunque anche la struttura sintattica ha bisogno di qualche cosa di più. Di quelle venature che il nostro cervello ha prima di ogni esperienza e istruzione. Come in quella immagine di Leibniz per cui lo scultore di fronte a un blocco di marmo è libero di fare quello che vuole: può fare Laocoonte o una vergine che esce da là. Ma non potrà ignorare le venature del marmo che lo costringono a dare un certo taglio. Questa citazione in realtà l’ho rubata a Chomsky che l’aveva rubata a Leibniz; d’altronde Borges diceva che tutti rubiamo...

GIUSEPPE ANTONELLI — E allora ripartiamo da Borges e da uno dei suoi racconti più famosi che s’intitola La biblioteca di Babele. Tu hai scritto un libro che si chiama I confini di Babele (il Mulino, 2018). Dante, raccontando della torre di Babele, spiega che Dio ha punito l’arroganza degli uomini facendo parlare in una lingua diversa ogni diversa categoria professionale impegnata a costruire la torre. L’incomprensione reciproca come maledizione divina. Tu invece chiudi il capitolo su Dante dicendo che Babele va vista non come una maledizione, ma come una benedizione.
ANDREA MORO — Tutto nasce da uno sguardo. Sono su un volo notturno, sto arrivando da Nord e sto per atterrare a Milano. È una notte stellata e vedo tutta la pianura padana fatta di queste città che, a parte Milano, sembrano grandi uguale e più o meno equidistanti. C’è un nucleo di luci e poi ci sono delle ramificazioni. A guardarle così, sembrava di vedere le popolazioni batteriche o le greggi di pecore. Tanto che mi dico: ma guarda, qui in Pianura padana sono riusciti a mantenere tutti gruppi piccolini, più o meno alla stessa distanza. E poi mi sono venuti in mente i dialetti. Quando i gruppi di animali sono troppo grandi, ad esempio, scatta certamente una malattia e si riducono. Quando le popolazioni cellulari sono troppo grandi, aumenta la concentrazione di certe proteine tossiche e anch’esse si riducono o si separano. E allora forse noi – noi come genere umano – abbiamo avuto una fortuna meravigliosa. Non ci si capiva tutti e questo deve avere avuto un effetto positivo sulla nostra sopravvivenza durante l’evoluzione. Babele, come tutte le differenze, è stata un dono.
GIUSEPPE ANTONELLI — Giraffe, elefanti, pappagalli, batteri. In quest’arca di Noè possiamo mettere anche la pantera odorosa di Dante. Per i bestiari medievali la pantera era figura di Cristo: dopo essersi cibata, tornava nella sua tana, dormiva tre giorni e poi si risvegliava. E grazie al suo alito profumatissimo attirava tutti gli animali; tranne il drago, perché il drago era l’immagine del diavolo. Allo stesso modo – dice Dante – il sentore della lingua perfetta si può percepire un po’ in tutte le parlate d’Italia, anche se nessuna è davvero quella lingua. Tu magari diresti che questo vale anche su una scala geografica molto più ampia.
ANDREA MORO — Sì; il profumo della lingua perfetta c’è in tutti gli angoli del mondo e nessuna lingua ha prevalenza o precedenza sulle altre: il tutto sempre chiuso nei confini di Babele. Per questo mi interessa la teoria delle lingue impossibili. Perché noi non possiamo sapere come si trasformeranno le lingue in futuro, ma stiamo iniziando a capire cosa non potranno diventare. Questa teoria è cruciale anche per capire la differenza tra noi e le macchine. Le macchine oggi non sono troppo poco potenti per assomigliarci; al contrario, sono troppo potenti. Per loro, infatti, non esistono lingue impossibili: è per questo che sono incommensurabilmente diverse da noi. È per questo che la nostra grammatica rimane unica nell’universo: alla fine, noi siamo i nostri limiti.