Linkiesta, 16 marzo 2024
L’arte di Francesco Costa di scrivere saggi per chi non legge
Ho un conoscente semianalfabeta con velleità intellettuali. No, scusate: ho quasi solo conoscenti semianalfabeti con velleità intellettuali, come chiunque viva in questo secolo. Questo qui, però, mi manda un messaggio ogni anno a inizio estate.
Il messaggio è sempre lo stesso (forse lo copincolla addirittura da un anno all’altro: non mi sono mai incomodata a controllare se corrispondano anche le preposizioni semplici e la punteggiatura). Dice: sto partendo per le vacanze, mi suggerisci qualche libro da portarmi? Come sai, preferisco la saggistica.
Che «preferisco la saggistica» sia la frase che svela l’ignorante è una cosa che ho imparato piuttosto presto: da piccola avevo una parente ch’era un abisso di pretenzioso analfabetismo, e si piccava di leggere solo saggistica (poi naturalmente leggeva di nascosto “Un uomo”, giacché la Fallaci era la Ferrante delle adulte d’allora).
Due inverni fa ho scritto un saggio sull’esibizionismo social, un tema su cui mi sembrava impossibile non citare Byung-Chul Han, che sta a questi anni come Bauman stava all’inizio del secolo, come Pirsig stava alla mia adolescenza: ogni epoca ha il suo filosofo semplificato per imbecilli che vogliano percepirsi semicolti.
Quando voglio ridere ripenso alla telefonata che mi fece l’editor di quel libro dopo averne letto la prima stesura, una telefonata che si aprì con «certo che questo Byung-Chul Han è proprio un bluff» e si chiuse con «forse Byung-Chul Han dovresti citarlo di più»: entrambe affermazioni fatte dal mio interlocutore, ed entrambe affermazioni necessarie e sufficienti a definire il disastro che ci troviamo ad abitare.
Il mio conoscente che partiva per le vacanze, non vi sarete già dimenticati di lui. Quell’estate, quando arrivò l’abituale richiesta, gli fotografai un paio di libri del filosofo dei penzierini che erano rimasti aperti sul tavolo della mia cucina dopo che avevo finito di scrivere il mio tomo (verranno a chiedervi come si riconosca una davvero disordinata, rispondete pure: le fa fatica richiudere un libro dopo che l’ha aperto).
Mi chiamò dalle vacanze gongolando, postò con voluttà foto di copertine, disse fino alla stagione successiva che il coreano gli aveva cambiato la vita (pensa che vita devi avere, per fartela cambiare da uno il cui contributo di pensatore è dirti che il primo piano è pornografico e negli autoscatti la società è solo uno sfondo).
La mia amica Cristina Fogazzi, che è il mio squarcio sul paese reale, mi legge pochissimo ma quelle poche volte mi cazzia tantissimo. Commento-tipo di Cristina in caso di lettura d’una qualche Avvelenata: no, senti, il punto e virgola dentro un inciso che sta in una parentesi no. Non la disprezzo abbastanza da consigliarle il coreano dei penzierini, ma di sicuro lo cazzierebbe meno: lui va a capo spessissimo.
L’ho pensata tantissimo leggendo il libro di Andrea Minuz di cui scrivevo ieri. Non credo gliene freghi granché dell’analisi dell’antiberlusconismo e delle colpe degli intellettuali di sinistra, ma non la innervosirebbe: ogni tre parole c’è un punto.
Ancora di più l’ho pensata l’altro giorno, quando m’è comparso su Instagram un post di Francesco Costa. Chi è Francesco Costa immagino lo sappiate, è abbastanza noto da comparire in “Call my agent”, serie Sky sullo star system italiano la cui seconda stagione (va in onda dalla prossima settimana) comincia con la prima d’un film d’insuccesso, e con gli agenti dei registi disperati che la mattina dopo ascoltano una voce dire «anche noi del Post c’eravamo, e possiamo confermare che c’era gente che dormiva, gente che rideva: sulla pioggia di lupini, pare che Mereghetti abbia persino imprecato».
Una delle agenti chiosa «questo è Morning, cominciamo una bella giornata di merda, ah!», e a quel punto persino le antiquate come me, che i podcast non li ascoltano, capiscono che si tratta di quello di Costa (la cultura popolare, ve ne dovessero chiedere una definizione, è esattamente questa roba qui: anche se quel prodotto non l’hai mai consumato, sai con che formula fissa inizia).
Comunque. Costa scrive libri sull’America, l’ultimo si chiama “Frontiera”, è uscito da dieci giorni, e se oggi sfoglierete gli inserti culturali lo troverete terzo in classifica. Non la classifica della saggistica: quella generale. Significa che, la scorsa settimana, più di lui in Italia hanno venduto solo il padre di Giulia Cecchettin, e il nuovo giallo di Gianrico Carofiglio.
Dunque un paio di giorni fa mi compare un post di Instagram, e la foto è la schermata con un messaggio che a Costa ha inviato una lettrice. Fa così: «Ciao Francesco! Complimenti per il libro: se può essere una recensione apprezzabile dico che il libro si presta in maniera ottimale alla lettura per una mamma di un infante. A ritmo di paragrafo riesco a leggere tutto».
Ora, questo è il punto in cui le osservatrici di puntevvirgola e incisi dentro parentesi tra due subordinate capiscono che questo non è un articolo ma uno sbotto di invidia (l’anno scorso ho trascorso un pomeriggio a fare il conto di quante royalties avesse incassato Aldo Cazzullo dal suo penultimo libro; quando settimane dopo, durante un’ecografia, m’hanno detto che avevo il fegato grasso, sapevo bene perché).
Ma non fermiamoci alla mia invidia per il messaggio che a me non scriverà mai nessuna, né lettrici né amiche (anche i miei messaggi su WhatsApp sono pieni di incisi e subordinate, e infatti di solito le amiche mi rispondono il cazzo per l’equinozio perché, a un certo punto della lettura distratta che si riserva alle cose che si spolliciano sul telefono, si sono perse il soggetto; a quel punto vengono grandemente cazziate, ma non se ne accorgono perché anche il cazziatone è funestato dalle ipotassi).
Arriviamo a ciò che mi interessa, cioè il momento in cui ho capito che è tutto finito: la didascalia che Costa appone al messaggio della lettrice. «In Italia leggiamo poco, si dice: è vero. Una cosa altrettanto vera che si dice meno: in Italia leggiamo quasi solo romanzi, poca saggistica».
Già da questa premessa è chiaro lo svolgimento, ma ricopio anche alcuni passaggi successivi: «I libri di saggistica sono spesso professorali, didattici, scritti in modo gergale. Escludono chi legge, danno tanto per scontato, sono pomposi o complicati (…) E c’è un’altra cosa che so bene, la osservo su di me: quanto è diventato difficile leggere un libro senza distrazioni, senza cercare istintivamente il cellulare in tasca, senza interrompersi (…) Volevo scrivere un libro che potesse piacere anche a chi legge poco, a chi leggeva e vorrebbe ricominciare, a chi legge solo romanzi ma è comunque curioso del mondo, a chi non ha tempo» (vi vedo che canticchiate «ai suonatori un po’ sballati, ai balordi come me»).
In principio furono i documentari di Netflix: gente che non sapeva niente, che non aveva mai letto un libro e non aveva intenzione di cominciare, per la quale il problema non era la fine della storia ma il fatto che tendesse a considerarla iniziata il giorno in cui era andata sull’internet per la prima volta, gente com’è la gente media di questo secolo s’informava così, a puntate.
Poi però pure quello risultava faticoso, i documentari, seguire le immagini, leggere i sottotitoli: come possiamo semplificare ulteriormente? Ma certo: i podcast. Le fiabe sonore. Vieni, piccolo analfabeta, stenditi qui tranquillo, ti racconto una storia, non devi neanche sforzarti di guardare le figure.
Quando sembrava che non si potesse andare più incontro di così a un pubblico che, nonostante viva nel paese la cui saggistica è “La rabbia e l’orgoglio” e “La casta” e “The game”, non certo “Massa e potere” o “Essere e tempo”, nonostante viva nel secolo di Yuval Harari e non in quello di Wittgenstein, pensa che la saggistica sia davvero troppo ostica, quando sembrava che semplificare di più fosse impossibile, Costa rilancia.
Non so se nel libro (non l’ho letto, e non ho neanche la scusa che leggo solo i morti: ho letto persino il coreano e i suoi penzierini sugli autoscatti, santa pace), ma di sicuro rilancia con questa dichiarazione di intenti, con questo post che dice che lui è felice che questa tizia legga un paragrafo tra un pannolino e l’altro, perché è esattamente ciò cui lui ambiva: essere il più bacioperuginista dei saggisti.
Chi ha successo ha ragione, e ancora prima di guardare i dati di vendita mi era chiaro che Costa avesse ragione, che l’idea di scrivere libri per chi non sa leggere fosse vincente, che si dovesse assecondare quell’inutilmente professorale tizio che diceva che i limiti del tuo sguardo sono i limiti del mondo e quindi è inutile darti delle subordinate se tu fai già fatica con predicato e complemento oggetto.
Proprio come Loredana Berté in quella canzone di Fossati, quella di Costa è la nobile istanza di chi cerca d’avvicinarsi «a chi non sono mai piaciuta, a chi non ho incontrato, chissà mai perché». Ha vinto lui. Come arriva l’estate, lo faccio portare in vacanza a quel mio conoscente. Vedrai come lo instagramma