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 2024  marzo 19 Martedì calendario

Dagli al Capro Espiatorio

Il nuovo romanzo di Walter Veltroni ( La condanna , Rizzoli) si cimenta con una figura eterna della commedia umana: il Capro Espiatorio. Dalla notte dei tempi la tribù individua una vittima sacrificale che per qualche ragione, spesso casuale, incarna il Male di cui ci si vuole vendicare, immolandola sull’altare dei propri rancori per illudersi di ristabilire l’equilibrio perduto, senza rendersi conto di essere lei – la tribù – il nuovo volto del Male. L’alter ego di Veltroni, un Giovanni orfano precoce e giovane giornalista immerso nella precarietà («un lavoro che va e che viene, nessun legame sentimentale stabile, una casa in affitto da un amico che, se ne ha bisogno, mi caccia») ci guida alla riscoperta di una delle pagine più vergognose, e perciò più rimosse, dell’Italia postfascista.
Siamo nel settembre del 1944 e i nazisti sono appena scappati da Roma, lasciandosi dietro una scia di orrori. Ad aiutarli nella macabra compilazione della lista per le Fosse Ardeatine era stato il questore Pietro Caruso. E il Palazzaccio sul lungotevere, già teatro dei tribunali speciali della dittatura, si apre alla nuova era mettendo alla sbarra proprio lui. La sentenza è già scritta – morte – ma il rito per arrivarci – il processo – attira il pubblico delle grandi occasioni, che preme ai cancelli, li scavalca e invade l’aula magna, rendendo necessario il rinvio dell’udienza. La notizia esacerba gli animi della folla, privata dello spettacolo per il quale era accorsa. Serve subito un vice-Caruso da gettare in pasto ai forcaioli. A offrirlo è la moglie di un militante comunista ucciso alle Ardeatine, che tra i testimoni dell’accusa presenti in aula individua il direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta.
Che cos’abbia in comune questo Carretta con Caruso, a parte le prime tre lettere del cognome, non è chiaro. L’alter ego di Veltroni indaga e scopre un essere umano contraddittorio, come quasi tutti gli esseri umani, che fino a quando Mussolini era rimasto al potere aveva gestito con pugno di ferro i detenuti politici, ma, arrivato a Regina Coeli in concomitanza con la fine del regime e l’interregno nazista, si era ammorbidito al punto di facilitare l’evasione di due futuri presidenti della Repubblica: Saragat e Pertini. La sua stessa presenza al processo in veste di testimone contro Caruso lo iscrive di diritto al partito dei «buoni».
No, non è chiaro che cos’abbia in comune Carretta con il sanguinario questore. Ma non è importante, purtroppo. Basta che quella donna gli punti l’indice addosso perché in tribunale si scateni la bagarre. Un’altra donna, una mezza matta, si fa sotto con nuove accuse e trasforma definitivamente Carretta nel capro espiatorio che si stava cercando.
Novecento
L’autore ci guida alla riscoperta di una delle pagine più vergognose dell’Italia postfascista
Veltroni equipara la folla del 1944 alla «ronda della rabbia» dei moderni social. E per un attimo anch’io, trascinato dall’emozione del suo racconto, ho provato a immaginarmi quella massa bestiale di giustizieri improvvisati non più sulla scalinata del Palazzaccio, dove nel frattempo hanno trascinato il malcapitato Carretta a calci e pugni, ma dietro una tastiera, luogo da cui non si infliggono direttamente danni fisici ma si bastona l’anima dei bersagli con esiti talvolta non meno tragici.
Il supplizio di Carretta è un’autentica Via Crucis. Solo due persone tentano di sottrarlo alla gogna. Il primo è un carabiniere: prova a farlo scappare su un’auto, che però si dilegua prima che lui riesca a raggiungerla. Il secondo è un tranviere dal nome emblematico di Angelo Salvatori: si rifiuta di passare sopra il corpo della vittima designata, che la folla ha deposto sulle rotaie per «farne salsicce», e si sottrae al linciaggio solo mostrando una tessera del Partito comunista.
Quel che resta di Carretta viene gettato nel Tevere ed è qui che la ferocia popolare raggiunge il suo culmine. Alcuni individui che stanno prendendo il sole sull’altra riva del fiume, e presumibilmente ignorano chi sia quell’uomo in acqua che chiede aiuto, salgono sulle barche per andare ad affogarlo a colpi di remo. L’ultima scena è un preludio di piazzale Loreto: il cadavere ripescato di Carretta viene appeso per i piedi a un’inferriata di Regina Coeli, davanti alla moglie che piange e alla gente che ride. «Ci sono bambini portati lì come fossero a Villa Borghese».
Veltroni non fa sconti nemmeno a un mito del cinema, Luchino Visconti, che riprese con le sue telecamere la gazzarra dentro il Palazzaccio e l’epilogo di Regina Coeli, ma volutamente non montò le immagini del massacro di quel povero cristo per non sporcare la retorica del popolo sempre buono e giusto a prescindere. Non fa sconti nemmeno al partito in cui iniziò a fare politica, il Pci, ricordando le parole con cui «l’Unità» di Togliatti commentò in prima pagina il supplizio di Carretta: «In forme che non vogliamo giudicare, la popolazione di Roma ha dato a tutti un potente avvertimento». A distanza di ottant’anni quelle forme vanno giudicate eccome. E il «potente avvertimento» che continuano a darci è di imparare a diffidare delle folle anonime e ancor più di chi le blandisce.