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 2024  marzo 19 Martedì calendario

1944 La lezione della storia


Cosa rimane della Liberazione ottant’anni dopo la strage delle Ardeatine, l’ingresso a Roma degli alleati, lo sbarco in Normandia? Quali scelte di allora hanno segnato l’Italia della Repubblica? I mesi tra la primavera e l’estate del 1944 sono un tempo sospeso, schiacciato tra le speranze di rinascita e la guerra totale che prosegue. La distanza dagli eventi rischia di allontanare significati e memorie. Come evitare il rischio più forte e pericoloso, quella doppia morsa che colloca da una parte l’oblio e dall’altra la stanca ripetizione di date simboliche che finiscono per risultare marginali, sommerse dalla polvere del tempo? Chi è venuto dopo, oramai diverse generazioni di italiani ed europei, rischia di dimenticare, anche inconsapevolmente e la costruzione di una ritualità di cerimonie non aiuta a rafforzare il senso di appartenenza a una comunità, i legami preziosi di un itinerario comune. Spesso la complessità della storia va in rotta di collisione con lo spirito del nostro tempo che schiaccia tutto sul presente, sulle informazioni veloci e incontrollabili, su quel rumore costante, il flusso di dati che accompagna le nostre giornate. Prevale, anche nello sguardo al passato, la semplificazione binaria: da una parte o dall’altra, mi piace o mi disgusta, bianco o nero, giusto o sbagliato senza gradazioni, dubbi, incertezze. Al contrario il clima che si respira a Roma nel 1944 è un mosaico di situazioni, reazioni, condizionamenti che compongono il tessuto della città in guerra. Un tempo della storia che sostiene le pagine del romanzo di Walter Veltroni, (La condanna, Rizzoli, 2024) immerse negli eventi della capitale nel passaggio tra guerra e dopoguerra.
Donato Carretta è il direttore del carcere di Regina Coeli, linciato e massacrato dalla folla inferocita nel settembre 1944: giustizia sommaria che scuote le coscienze di tanti. Carretta ha condiviso responsabilità e ruoli con il regime e con gli occupanti, è implicato nelle dinamiche delle Fosse Ardeatine diventa un simbolo di una reazione incontrollabile. La vicenda controversa dal finale orribile e violento viene ricostruita a partire dalle domande di un giovane giornalista, o aspirante tale. Giovanni entra nella redazione di un quotidiano nel tempo della crisi della carta stampata, la rivoluzione digitale travolge consuetudini e modalità di lavoro. Ha inizio un dialogo tra generazioni nello spazio di una redazione apatica, in stato confusionale. Giovanni, ventiquattro anni, muove i primi passi, cerca a fatica le vie di una conoscenza non episodica mentre il caposervizio della cultura, Sergio Fabiani lo guida senza eccessi o prevaricazioni, con intelligenza e partecipazione. I due in apparenza cercano tracce di un passato lontano, tra le luci e leombre dell’estate romana del 1944, ma in realtà parlano del nostro tempo e delle contraddizioni che lo abitano. Come costruire relazioni di lavoro, percorsi di conoscenza non avvelenati dalle scorie della comunicazione contemporanea?
Il pezzo commissionato a Giovanni diventa un percorso a ritroso: tra Regina Coeli, il Tevere, il Palazzo di Giustizia scorrono i frammenti di vicende controverse. Non è facile trovare un punto di equilibrio, un approdo: «La democrazia è pacata, risoluta, ferma. Ma pacata. Falcone era un urlatore? Lo era Borsellino? Moro? La democrazia non bastona, nonlincia, non oltraggia. Semmai concede una pensione alla moglie e ai figli di Caruso. Quel giorno si sono sommate tante cose, credo. La rabbia, certo, per tutto ciò che c’era stato prima, per non aver visto in faccia uno degli aguzzini, il dolore delle famiglie delle Fosse Ardeatine, persino il disagio per la differenza tra privilegiati e popolo nella distribuzione degli inviti, la sensazione è che il processo si sarebbe concluso in farsa. Perché il fascismo nella sua caduta, aveva travolto ogni fiducia nelle istituzioni, persino in quei ragazzi in divisa che venivano insultati da quel popolo di cui erano certamente figli. Quella mattina peròc’era anche altro. C’erano delinquenti e millemestieri, c’era gente che voleva far casino, sfogare rabbie che nulla avevano a che fare con la lotta per la libertà. Cercavano come faine un capro espiatorio per lenire la loro sofferenza. Come fanno i social oggi, la ronda della rabbia».
La consegna dell’articolo, il colloquio sulla linea editoriale diventano un pretesto per costruire ponti attraversabili. L’attesa consolida l’intesa tra i due, generazioni a confronto, il mestiere che si ritrova, un metodo che non muore, scolpito nel «desiderio di sapere e nella voglia di raccontare». L’epilogo incoraggiante non esaurisce le domande: «Ottimo lavoro, Giovanni. Anche s e sei stato fin troppo indulgente con il personaggio Carretta. (…) Nel mio cuore preferisco chi, in quale tempo ha scelto, nettamente, di dire no al regime fascista. Perché nei fatti di quegli anni non ci sono torti e ragioni che si equivalgono. Aveva torto chi ha privato gli italiani della libertà, aveva ragione chi l’ha restituita. Punto e basta». Meglio andare a fondo, anche attraversando le pagine più ambigue: «Proprio per questo la storia di Caretta è orribile e non va nascosta, né si devono trovare giustificazioni di sorta. Chi ama la libertà non può accettare che un uomo venga linciato e straziato in quel modo, senza un capo d’accusa, un processo, la possibilità di difendersi. Questo lo fanno i dittatori e i regimi. Il linciaggio di Carretta è quanto di più lontano dagli ideali e dalle regole della democrazia».