la Repubblica, 19 marzo 2024
Boeri si fa cartone per insegnare l’architettura ai bambini
Nato sotto il segno di Gio Ponti (1956, inizio costruzione del grattacielo Pirelli) da madre architetta e padre neurologo, famoso lui a sua volta per i grattacieli alberati detti Bosco Verticale e molti altri progetti di cui si vedono tracce nello studio di Milano, tra librerie assai disordinate, faldoni di vecchi lavori, e anche un disegno magico, fatto con il gesso sul muro da Ettore Sottsass. Forse un occhio, forse è l’occhio dell’architetto. E anche nonno entusiasta e vagamente “rimbambito” al punto da trasformarsi in scimmietta-architetto, con gli stessi occhiali tra i capelli. Sarà un ritratto nuovissimo di Stefano Boeri, sotto forma di cartone animato. «È Archibò, e fa parte di una serie Raiche andrà in onda in autunno. Uno che vive sugli alberi, come il Barone rampante di Calvino…».E perché ha accettato di prendersi in giro?«Non mi prendo in giro, è che mi è facile entrare in sintonia con i bambini, che hanno una predisposizione naturale al fantastico. Non alla fantasia, non alla fantascienza, ma proprio al fantastico plausibile di Calvino. I bambini amano costruire grattacieli, lavorare contro la gravità. E non sono “solo giochi”, perché con i bambini si gioca seriamente. Adesso, nel mio rimbambimento di nonno, ho messo su con Dynamo Camp una piccola scuola di architettura per bambini, il primo laboratorio parte a giugno. Dai 3 ai sette anni, perché fin da piccoli devono capire cos’è uno spazio, un edificio».L’età dei suoi nipoti?«Quasi. Sono due bambine, una di 3 anni, l’altra di 3 mesi, figlie di mio figlio maggiore. Poi ho un altro figlio ormai grande, e uno nuovo, più giovane, in affido. E pensando al futuro delle mie nipotine, ammetto di essere a volte angosciato».Ci spieghi questa angoscia.«Come sappiamo, fra 50 anni non esisteranno più i ghiacciai. I miei genitori, io e i miei figli abbiamo invece avuto il contatto con la potenza del ghiacciaio, che è un pezzo di vita, di letteratura e di cinema. Ma basta andare in Engadina e guardare come è ridotto il Morteratsch. Due-tre chilometri più giù di dov’era quando ero bambino.Lì misuri davvero lo spazio e il tempo. E infatti ci sono molti giovani che non fanno figli, perché temono di regalare loro una vita difficile. Questo è molto triste».Lei vive tra i giovani, in studio e al Politecnico, dove è ordinario di Urbanistica. Un contatto diretto, come con il ghiacciaio.«E anche in Triennale, di cui sono presidente, e nel mio studio, dove facciamo ricerca come se fossimo un dipartimento universitario, su progetti che a volte non hanno un ritorno economico, in uno sbilanciamento verso il rischio di impresa. Cerchiamo di anticipare il futuro, studiando ad esempio il tema delle diseguaglianze. Dove scoppieranno nei prossimi decenni?Nei diritti di genere? Nella crisi ambientale? Nel sociale? Ammetto che questo tipo di lavoro rende la vita interessante. Sono fortunato».Perché lavorare con i giovani è importante per lei?«È una proiezione costante con chi sarà protagonista del futuro. E gli architetti e gli urbanisti non possono vivere in una bolla. Il senso dell’architettura è il futuro degli spazi, l’anticipare i bisogni umani, perciò dobbiamo essere inclusivi, aperti. Ma poi c’è il progetto, che è un momento solitario, e crudele.Bisogna infatti arrivare a una forma compiuta, unica, che sia una casa, una città, o questa tazzina. Si oscilla tra l’apertura al mondo e la chiusura, quando si decide un solo futuro».Quanti studenti ha? E come sono, cosa pensano.«Sono 80, tra i 23 e i 28 anni, cioè quelli che fanno il master. E 75 sono stranieri. Io vedo la loro disillusione.Il rifiuto di credere e di investire nelle grandi utopie, che è anche un’eredità della pandemia. E c’è una grande rabbia, il sentirsi non responsabili di un futuro non scelto, ma di cui diventeranno protagonisti. Poi, i giovani hanno sempre comunque risorse pazzesche, un potere enorme di interesse e curiosità della vita, su cui bisognerebbe investire di più».Eppure, tra loro ci sono anche emergenti, di successo.«Sì, penso soprattutto a una generazione di ragazzi afro-italiani, spesso eccellenze nello sport, nella musica e nel cinema. Orgogliosi delle proprie origini e dell’essere italiani, sono portatori di cultura, non di richieste di aiuto, servizi o spazi.Basta seguire i loro podcast, le loro storie su Instagram. Io sto imparando tantissimo da loro. Per l’Italia è una cosa nuova, ma è uno dei segni controcorrente e straordinari che riesco a cogliere. E vedo anche ilrazzismo subdolo, nascosto da un perbenismo ipocrita».Che ragazzo è stato?«Uno che voleva fare l’oceanografo, infatti ho poi fatto Architettura.Studente furbo, uscito con 56 dal Manzoni negli anni della contestazione. E avendo studiato poco, ho ancora dei buchi culturali.All’università dal ’75 all’80, e allora c’erano gli esami di gruppo, quindi altri buchi. Però ho recuperato come autodidatta: gli esami più tecnici li ho imparati lavorando nei cantieri».Cosa ricorda dei Settanta?«Facevo politica nel movimento studentesco, ed era un mondo duro,di tensioni e passioni. Ma c’erano anche delle bombe di colore e luce, e qui penso alla figura incredibile di Elio Fiorucci, all’influenza che ha avuto sulla moda, sul design, e su musica, vita notturna, a Milano e non solo. Ci facciamo una mostra a ottobre, in Triennale. E non sarà solo il pop, ma la sua rapsodia cromatica, il suo mondo esteticamente caotico».Lei com’è, da professore?«Molto attento. La dimensione del gruppo esiste ancora, ma come lavoro di gruppo. Penso ai giovani progettisti del laboratorio Roma 050, voluto con il sindaco Gualtieri: lo stato attuale dell’urbanistica, le strategie per il futuro. È una grande sfida, perché Roma ha dentro tutte le città del mondo, è il futuro dell’umanità urbana, e si gioca proprio lì».Ma lei è molto milanese.«Famiglia borghese, e Milano è la città al mondo che rappresenta meglio la sfera delle libere professioni. Mio padre Renato, neurologo. Mia madre, Cini Boeri, architetta razionalista».Quando è morta, nel 2020, lei l’ha definita “tigre e chioccia”.«Era così. Grande presenza, grande amore per noi tre figli. Seguiva tutto, pur avendo una grande autonomia e suoi spazi. E così teorizzava nel lavoro. La vita di coppia deve garantire spazi di autonomia, e quindi due stanze da letto, due letti.Teorizzava anche che i matrimoni dovessero scadere dopo 5 anni. E che lì decidi se andare avanti. Se sì, allora si rifà una festa e si ricomincia. In questo non l’ho seguita, essendo sposato da 36 anni con Maddalena.Ma la sua lezione è vera, l’autonomia tra due persone che si amano è la vera garanzia del loro legame».