il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2024
B. e indro, dalla visita in corsia al divorzio
Il grande idillio tra Silvio Berlusconi e Indro Montanelli cominciò dopo quella calda mattina del 2 giugno 1977, festa della Repubblica, quando il toscano di Fucecchio venne preso di mira davanti ai giardini pubblici di via Palestro da tre uomini delle Brigate Rosse, che lo gambizzarono (…).
Il giorno dopo, la notizia dell’agguato delle Br ebbe grandissimo risalto tranne in alcuni giornali come il Corriere, dove i titoli di prima pagina erano generici perché non venne scritto il nome “Montanelli” (…). Il Direttore ricevette la telefonata di Gianni Agnelli che, con il suo humour britannico, gli domandò: “Ma non le era bastata l’Abissinia?”. La risposta fu altrettanto secca: “L’unica cosa alla mia portata per tentare di imitarla era procurarmi una zoppia”.
Qualche giorno dopo, andò a fargli visita in clinica Silvio Berlusconi, che aveva conosciuto solo poco tempo prima a Milano 2. Quell’incontro portò fortuna al grande giornalista perché il Cavaliere, a una domanda specifica di Indro, dette la sua immediata disponibilità a entrare nell’azionariato della casa editrice del Giornale che il toscano aveva fondato tre anni prima e che già si trovava in difficili condizioni finanziarie. (…) “Berlusca” portava allora i baffetti ma poi se li era tagliati e aveva anche ordinato a tutti i suoi principali collaboratori di non andare più in giro baffuti (…).
Ma come si arrivò alla rottura definitiva? Il motivo, secondo Montanelli, fu pretestuoso “perché avvenne dopo il mio atto, diciamo così, di ribellione”. Da un giorno all’altro, l’amministrazione decise, infatti, con i conti del Giornale in profondo rosso, di tagliare drasticamente le spese e, in particolare, di chiudere quasi tutti gli uffici di corrispondenza esteri. A quel punto Indro si sentì “debole e isolato”: “Ci tenevano tutti con il gancio in gola e tra i redattori c’era anche molto malumore per le condizioni economiche. (…) Ed eravamo anche l’unico giornale italiano che andava ancora avanti con le macchine per scrivere. I computer sono poi arrivati, ma con Feltri. Insomma, sono stato messo nelle condizioni di andarmene” (…). All’apparenza, però, in quell’agosto del 1993, non pareva proprio che al Giornale qualcosa bollisse in pentola: Montanelli era andato in ferie a Cortina e, ogni mattina continuava a fare la sua bella passeggiata con Pietro Barilla che, da lì a poco, avrebbe lasciato questo mondo (…). Da fonti bancarie, Montanelli seppe che la situazione finanziaria del gruppo Fininvest era sempre più critica e che lo stesso Silvio continuava a ripetere di voler creare una specie di diga attorno al suo impero entrando direttamente nel mondo della politica (…). La situazione precipitò nell’autunno del 1993. E quell’anno fu proprio Giancarlo a sapere tra i primi quali fossero le reali intenzioni del “Cav”. Era il 18 settembre quando l’ultimo presidente dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, ormai uscito di scena, venne invitato da Silvio a Villa San Martino assieme alla moglie Raissa: Montanelli chiese al suo giornalista di seguire l’incontro anche perché “Gorby” avrebbe concesso un’intervista che però non ci fu per un motivo molto semplice: Silvio fece saltare il botta e risposta perché preferì che l’ex inquilino del Cremlino visitasse, in fondo al parco, il mausoleo di Cascella, proprio quel mausoleo in cui lo stesso Berlusconi è stato sepolto trent’anni dopo. A quel punto, sentendo comunque aria di scoop, Giancarlo si piazzò dietro alla coppia italo-sovietica per cercare di carpire le loro confidenze. E, durante il colloquio, il padrone di casa confessò che stava, lui stesso, per entrare in politica anche se Gianni Letta, al suo fianco, cercava di zittirlo strattonandogli disperatamente la giacca.
(…) Giancarlo si precipitò nell’ufficio di Montanelli per anticipargli la notizia e il toscano non la prese affatto bene: la sua deontologia professionale non gli avrebbe consentito di avere un editore che fosse diventato leader politico. Il countdown finale era davvero cominciato. In quei giorni, Cilindro chiese aiuto anche a Enrico Cuccia, ras di Mediobanca, che gli confermò che la Fininvest era in un mare di debiti: perché allora, chiese Montanelli, non organizzare un pool di imprenditori in grado di acquistare il Giornale? Indro racconterà: “Cuccia si impegna a sentire il Cavaliere sulla sua disponibilità a vendere il quotidiano, ma il tentativo va a vuoto. Silvio, a quel che mi dice il Grande Vecchio di via Filodrammatici, non prende neppure in considerazione l’offerta. A quel punto capisco che devo lasciare il mio giornale dopo 20 anni”.
In tanti – e non solo i berlusconiani doc – considerarono la decisione del toscano di Fucecchio come un vero tradimento. Addirittura Emilio Fede, il giornalista televisivo legato a Berlusconi, si scagliò sulle reti Fininvest per mettere in croce quel direttore ingrato. Fu veramente così? All’indomani della nuova e sfortunata avventura della Voce, una volta per tutte Montanelli chiarì la vicenda: “…Non hanno compreso che non volevo, semplicemente, fare il servitore di un uomo, di un editore che stava diventando un politico. Nessuno tra coloro che mi hanno maledetto e ripudiato si è chiesto se io, uscendo dal Giornale, facessi i miei interessi o no. Era mio interesse restare in via Negri: il Cavaliere era disposto a darmi chissà quali premi se accettavo di essere il direttore di un giornale berlusconiano; probabilmente mi avrebbe addirittura promosso al Quirinale: io, sbattendo la porta, ho rinunciato alla più bella occasione di carriera. Sto esagerando? Direi di no, considerando che una bella fetta dei ministri del governo Berlusconi era composta da collaboratori del Giornale. Tutto questo coloro che mi hanno ripudiato non l’hanno pensato. Hanno creduto che fossi un traditore della destra nel momento in cui la destra vinceva. Il fatto è davvero comico se non fosse tragico. Di solito chi tradisce abbandona una bandiera che s’ammaina. È molto difficile andarsene quando c’è l’alzabandiera. Io ho lasciato una bandiera vincente, perché non era più la mia” (…)
La rottura definitiva con Silvio avvenne il giorno della Befana del 1994: nel pomeriggio, Antonio Tajani, che era appena diventato il portavoce di Berlusconi dopo aver retto la redazione romana del Giornale, telefonò a Federico Orlando per dirgli che il Cavaliere era, in quel momento, in piazza Cordusio, a due passi da via Negri, e che avrebbe voluto fare un salto in redazione per parlare con i giornalisti. Il condirettore sconsigliò caldamente di fare quel passo, ma Silvio arrivò ugualmente in via Negri e, davanti ai giornalisti, criticò (ma non troppo) la direzione perché, disse, usava troppo il fioretto senza affondare il bisturi sui gravissimi problemi che attraversavano l’Italia. E incalzò: se il quotidiano diventerà più aggressivo, arriveranno i sospirati investimenti attesi da tutti. Apriti cielo! Quando Montanelli venne a sapere della visita in redazione del Cavaliere non invitato, s’inalberò particolarmente e, a questo punto, la situazione precipitò. Ventiquattro ore più tardi, dopo essere stato già in precedenza invitato a colazione da Silvio in via Rovani, Indro ci andò ugualmente, ma sarà, comunque, il pranzo dell’addio. Il 12 gennaio, il Giornale pubblicò così il fondo di congedo di Montanelli dai propri lettori: “…Sia chiara una cosa. Nessuno mi ha scacciato. Sono io che mi ritiro per una di quelle situazioni di incompatibilità, di cui i lettori avranno preso atto dallo scambio di lettere fra me e l’editore”. E poi aggiunse: “Di editori, in realtà, ne ho conosciuti due. Uno è stato l’amico che mi venne incontro… Eppoi ne ho conosciuto un altro: quello che, tramutatosi in capo-partito, ha cercato di ridurre il Giornale a organo di questo partito suggerendogli non solo le posizioni da prendere – e sulle quali non c’erano in fondo grosse divergenze – ma perfino il linguaggio da usare. Avrebbe finito per impormi anche la ‘divisa’ del suo partito, il suo look”.