il Fatto Quotidiano, 19 marzo 2024
La storia dei Led Zepplin
Cinque passaporti. E niente altro lì dentro. La cassetta di sicurezza era dannatamente vuota. Quando il tour manager Richard Cole scoprì l’ammanco di quasi 200 mila dollari nel box n. 51 del Drake Hotel, al 440 di Park Avenue, i Led Zeppelin erano già diretti al Madison Square Garden per la terza e ultima serata newyorchese nel loro giro di oltre 30 concerti in Nord America.
Era il pomeriggio del 29 luglio 1973. I tabloid l’avrebbero raccontato come “il più grande furto” in un albergo della Grande Mela. Non proprio il colpo del secolo: per la band era argent de poche, la tournée aveva garantito ricavi per 4 milioni di dollari. Chi era stato a fregarsi il malloppo? Il Nypd e l’Fbi concentrarono le indagini su uno dei dipendenti, Tad Jaconski, che disponeva di una chiave di servizio. E su un certo “Mr.B”, l’uomo dell’ascensore, che mesi dopo avrebbe comprato una Ford in contanti e forse aveva gestito un oscuro affare immobiliare in Florida. Si favoleggiò pure di un altro impiegato che il giorno dopo il fattaccio era partito per la Giamaica, biglietto di sola andata. Ma la manina è stata più probabilmente quella del super manager degli Zep, il famigerato Peter Grant, un ex wrestler che spaventava tutti. Poco meno che duecento bigliettoni da imboscare per evitare le tasse o magari saldare i pusher che imbottivano i Led Zeppelin di ogni sorta di droga.
Qualcosa era andato però storto. E mentre i detective setacciavano l’hotel, i roadies ripulivano le suite delle rockstar da ogni polverosa traccia. Grant convocò una conferenza stampa, un paparazzo si fece troppo insistente e l’omaccione gli scaraventò la Nikon contro il muro. Arrestato, Grant arrivò senza manette alla centrale, scortato in auto da un poliziotto che era stato batterista dilettante in un gruppo di supporto degli Yardbirds, il precedente incarico del manager.
Frammenti della leggendaria vicenda compaiono nel film The song remains the same, che torna dal 25 al 27 marzo nelle sale italiane dopo l’uscita nel 1976 e alcune edizioni in Dvd. A osservarlo con spirito da cinefilo oltranzista il lungometraggio appare una costruzione sghemba, naïf, improbabile: al netto dell’immensa potenza di fuoco dei Led Zeppelin dal vivo (il quadrilatero perfetto del rock nella stagione aurea degli anni 70), qui c’è “un concerto” inframezzato da criptiche sequenze off-stage: quelle d’apertura vedono Grant, Cole e il batterista John Bonham mascherati da gangster alle prese con un massacro simil-proibizionista; c’è il bassista John Paul Jones che racconta favole ai bambini e impersona un organista medioevale; il frontman Robert Plant protagonista di una saga da Artù, con tanto di spada nella roccia; il chitarrista Jimmy Page arrampicato su un declivio dove incontra se stesso nei panni di un esoterico vecchio eremita, e ancora Bonham che si trastulla nella fattoria o in imprese motoristiche con un iconico dragster.
Scene “di allucinazione” vennero definite 50 anni fa: ma c’era un motivo tecnico per l’inclusione nel plot. Il regista incaricato di girare i live negli Stati Uniti, Joe Massot, non si era rivelato affidabile. Malgrado avesse nel curriculum un’esperienza con George Harrison, e pur godendo della raccomandazione di Page, sottovalutò la quantità di pellicola necessaria per filmare le tre serate al Garden (più l’arrivo sul jet privato “The Starship” a Pittsburgh e alcuni tempestosi dietro le quinte a Baltimora). Solo a cose fatte il management degli Zeppelin si accorse che troppi brani non erano stati immortalati dagli obiettivi. Grant ricattò Massot, questi intentò una causa. Però occorreva “ricostruire” il progetto a 35 mm: ed ecco la ragione di quegli inserti oscuramente narrativi sovrapposti all’audio (salvato a parte) della band.
C’era dunque bisogno di altri shot “in azione”: un secondo regista, Peter Clifton, fu ingaggiato perché nell’agosto ’74 agli studi inglesi Shepperton venisse ricreato un falso Madison Square Garden per le riprese ravvicinate dei quattro musicisti. Praticamente un playback: gli occhiuti fan notarono che gli accordi suonati da Page non corrispondevano a quelli reali. In più Jones era stato costretto a indossare una parrucca, perché dopo il tour Usa ’73 si era tagliato i capelli. The song remains the same uscì nel ’76 per tamponare lo stop forzato nel calendario live causato dal terrificante incidente che aveva coinvolto Plant (e la sua famiglia) a Rodi nel ’75, costringendolo a lungo su una sedia a rotelle.
Come sia, il film resta il documento struggente di un momento irripetibile nella storia dei Led Zeppelin. Vi compare il secondogenito del cantante, il piccolo Karac, morto a 5 anni nel ’77 per una misteriosa infezione; e Page vaga nei dintorni della Boleskine House, la sinistra residenza a due passi dal Loch Ness che aveva acquistato dal suo idolo, il satanista Alesteir Crowley. Bonham se ne andò all’altro mondo nel 1980, e con lui, che sui tamburi era una furia anche a mani nude, il dirigibile di piombo precipitò di colpo nel passato.