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 2024  marzo 18 Lunedì calendario

Torna in sala Quarto potere

Verrebbe da dire: beati quelli che non hanno mai visto Citizen Kane, il film d’esordio di Orson Welles (in italiano Quarto potere), e potranno scoprirlo e gustarlo adesso, in originale, nell’edizione restaurata e sottotitolata che manda nei cinema I Wonder Pictures.Beati perché se non avranno gli occhi rovinati da troppi brutti film si accorgeranno di essere davanti a un capolavoro che nonostante i suoi 83 anni (li compirà il 1° maggio) ha ancora molto da dire. Fin dalle primissime inquadrature quando l’avvicinamento al castello di Xanadù manda a gambe all’aria quell’illusione di realtà su cui si fondava il cinema di ieri ma anche quello di oggi (cosa servono i più sofisticati effetti digitali se non a darci l’impressione che quello che vediamo è «vero»). Il castello con la sua finestra accesa è sempre là, in alto a destra nell’inquadratura, ma quello che è ripreso in prima piano cambia continuamente: un cancello istoriato, una gabbia di scimmie, due gondole in acqua, un ponte levatoio, un campo da golf, un tempietto antico, tutti lì a smontare qualsiasi credibilità: come fa quella finestra a restare sempre nello stesso posto se cambia il punto di osservazione? Perché – ci dice Welles – non esiste più un unico punto visivo da cui guardare e l’obiettivo della macchina da presa può ingannare, può raccontare qualcosa di più contraddittorio e più complesso. E così sarà per tutto il film, impegnato a «smontare» l’abitudine dello spettatore ad accettare passivamente quello che lo schermo gli sta raccontando.
Lo fa dal punto di vista narrativo, sguinzagliando un giornalista a scoprire il significato dell’ultima parola pronunciata dal miliardario Charles Foster Kane sul letto di morte: «Rosebud». E non è certo uno spoiler dire che lui non lo scoprirà (a differenza dello spettatore) perché è questo che vuole dirci il film, che non esiste una sola verità, come ci ha mostrato che non esiste un solo modo di riprendere la stessa finestra illuminata. Ognuno dei testimoni che il giornalista intervista racconta una faccia diversa di Kane, contraddittoria, sorprendente, a volte irritante a volte commovente.
Per tutto il film Welles, che si è attribuito il ruolo di Kane affidando ai suoi compagni del Mercury Theater – Joseph Cotten, Everett Sloane, Dorothy Comingore, Agnes Moorehead, Erskine Sanford, Ray Collins, Ruth Warrick – gli altri ruoli, costruisce attorno al personaggio centrale un moltiplicarsi di riflessi, di prospettive, di accostamenti che confondono.
Il mondo conosciuto, il mondo che siamo abituati a vedere al cinema (che erano abituati a vedere nel 1941 ma che siano ancora abituati a vedere adesso), sparisce. O più esattamente appare sotto un costante camuffamento, tanto più estraneo proprio per il fatto di essere ancora lo stesso mondo. E questo ribaltamento lo fa anche dal punto di vista visivo, chiedendo al direttore della fotografia Gregg Toland di portare all’estremo i suoi esperimenti sulla profondità di campo. Fino ad allora (e anche dopo) l’immagine proiettata sullo schermo tende ad avere a fuoco solo la persona o l’oggetto su cui il regista vuole attirare l’attenzione, lasciando nel vago quello che sta intorno o dietro. E invece la ricerca di adeguare l’obiettivo della cinepresa all’occhio umano (che mette sempre tutto lo spazio a fuoco) diventa lo strumento per leggere lo spazio all’interno dell’inquadratura in modo nuovo, distruggendo quella messa a fuoco «univoca» su cui era costruito tutto il cinema hollywoodiano.
Non da solo, naturalmente, perché anche il montaggio di Robert Wise, le scenografie di Perry Ferguson, la musica di Bernard Hermann (il compositore tanto amato da Hitchcock ha iniziato qui, con Welles) così come la sceneggiatura di Herman Mankiewicz (a cui Welles ha collaborato) hanno avuto un ruolo fondamentale nel costruire, sotto la direzione del regista, questo ritratto faustiano di un «americano al cento per cento», il film – ha detto Truffaut – che ha fatto nascere più vocazioni cinematografiche al mondo perché considerato il più bello di tutti.