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 2024  marzo 18 Lunedì calendario

Le biografie di chi fu ucciso alle Fosse Ardeatine raccontano un Paese. E la Resistenza

«Che cosa sarà di noi? Questa è la tragica domanda che mi rivolgo». Così scrive dal carcere nazista di via Tasso in un biglietto clandestino alla moglie Giovanni Frignani, uno dei carabinieri che il 25 luglio 1943 avevano arrestato Mussolini. Dopo l’armistizio Frignani era entrato nella Resistenza, ma all’inizio del 1944 cadde nelle mani della Gestapo, fu più volte torturato e qualche giorno prima del suo quarantasettesimo compleanno, il 24 marzo 1944, ucciso alle Fosse Ardeatine.
In quella cava di pozzolana alle porte di Roma, all’inizio della fosca primavera del 1944, vengono uccise 335 persone. Una sequenza di colpi di pistola sparati alla testa, che fanno cadere le vittime sul cumulo dei cadaveri di coloro che le hanno precedute, nel buio umido e profondo di un anfratto di cui verrà fatto esplodere l’ingresso. È la più grande strage compiuta dai nazisti in un’area metropolitana, di cui tra qualche giorno ricorre l’ottantesimo anniversario. Ma nonostante la portata storica di quel tragico fatto, la vicenda personale di gran parte delle vittime si è persa nel tempo. Tre dei 335 martiri sono addirittura ancora ignoti. Molti altri sono poco più di un nome.
A riparare a questo vuoto ora è un libro bellissimo degli storici Mario Avagliano e Marco Palmieri, Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, in uscita domani da Einaudi, con un sottotitolo significativo: Le storie delle vittime dell’eccidio simbolo della Resistenza. Un libro che si presenta come una sorta di Spoon River italiana che ricostruisce la biografia di tutte le vittime. Un risarcimento morale per questi italiani finora in larga parte sconosciuti (a parte qualche eccezione, come l’eroico colonnello Giuseppe Montezemolo, capo della Resistenza militare, la cui biografia era stata raccontata dallo stesso Avagliano). Gli autori hanno lavorato su lettere, diari, interviste ai parenti, documenti di archivio presso l’ufficio storico della polizia, il Casellario politico centrale, il Museo storico della Liberazione, l’Anfim, l’associazione dei familiari, gli incartamenti del processo Kappler e dei processi ai fascisti nel dopoguerra.
Dalle storie individuali emerge un microcosmo altamente rappresentativo della storia del tempo, dando uno spaccato dell’identità italiana dal punto di vista geografico (i martiri sono di 18 regioni, 6 nati all’estero e 9 stranieri), sociale (tutti i ceti, i livelli di istruzione e le condizioni economiche, lavorative e professionali), generazionale (dai 32 giovanissimi tra i 15 e i 21 anni fino ai 15 ultrasessantenni), religioso (cattolici, ebrei, evangelici e atei), militare (una quarantina di ufficiali di tutte le armi, veterani della Grande guerra e giovani volontari delle campagne più recenti). Ma soprattutto politico: le vittime sono rappresentative di tutte le anime che partecipano alla Resistenza. Si va dagli oppositori di vecchia data rimasti fedeli alle proprie idee durante il ventennio, come il professore azionista Pilo Albertelli, originario di Parma, il ferroviere socialista Armando Bussi o il comunista sardo Sisinnio Mocci, reduce delle Brigate Garibaldi in Spagna, a coloro che maturano la scelta solo dopo l’armistizio. L’avvocato Alberto Fantacone in una lettera alla moglie scrive: «Cerca di confortarti perché del resto sono dentro non per aver commesso qualche grave reato ma per aver aderito a qualche cosa che rappresenta un ideale a cui dovrebbero aderire tutti gl’italiani, degni di questo nome».
Una quota significativa delle vittime è costituita da militari che rifiutano di aderire alla Rsi, spesso in nome alla fedeltà alla monarchia, e scampano al destino da Internati militari. Il Fronte militare clandestino di Montezemolo conta almeno 42 vittime alle Fosse Ardeatine e ha un ruolo fondamentale nella Resistenza a Roma. E numerosi sono anche i membri delle forze dell’ordine, in particolare carabinieri e poliziotti, come il tenente colonnello dei carabinieri Manfredi Talamo, che durante la guerra aveva trafugato il Black Code, il codice segreto di trasmissione degli Alleati, e il poliziotto Maurizio Giglio, figlio di un funzionario dell’Ovra, che mette su un’efficientissima organizzazione di intelligence, Radio Vittoria, collaborando con i socialisti Giuliano Vassalli e Sandro Pertini. Numerosi sono anche i giovanissimi nati e cresciuti nella temperie culturale del regime alla quale si ribellano, come lo studente cattolico comunista Romualdo Chiesa e diversi giovani operai dei quartieri popolari di Roma, da Centocelle a Pigneto e Tor Pignattara. Di contro, ci sono anche fascisti che in precedenza avevano avuto ruoli importanti, tra cui un podestà arrestato per aver aiutato e nascosto soldati alleati e l’ex sottosegretario di Mussolini, Aldo Finzi, che aveva fondato una banda partigiana a Palestrina.
Lo spirito che li anima è sintetizzato da quanto si legge in un biglietto a matita ritrovato in tasca a una delle vittime, scelto da Avagliano e Palmieri come dedica del libro: «Sono Italiano e mi vanto di appartenere alla Nazione più bella del mondo, a questa bella Italia così martoriata! Se non dobbiamo più rivederci ricordate che avete avuto un figlio che ha dato sorridendo la sua vita per la Patria guardando in viso i carnefici!».
La particolarità della strage delle Fosse Ardeatine è che essa parla non solo della Resistenza ma anche della storia degli ebrei, prima perseguitati nell’Italia delle leggi razziali e poi braccati per essere portati a morire nei campi di sterminio (75 vittime, di cu 66 iscritti alla comunità ebraica di Roma e altri iscritti ad altre comunità o stranieri). Tra le varie storie, spicca quella della famiglia Di Consiglio. Il 21 marzo 1944, tre giorni prima dell’eccidio, le SS arrestano su delazione di un italiano quattordici componenti della famiglia Di Consiglio e quattro componenti della famiglia Di Castro. Sei maschi della famiglia Di Consiglio, tutti nati a Roma, più Angelo Di Castro, con loro imparentato, vengono uccisi alle Fosse Ardeatine, le donne e i bambini vengono deportati, via Fossoli, ad Auschwitz e nessuno di loro tornerà a casa.
Un punto d’osservazione sacrosanto, quello proposto da Avagliano e Palmieri, che ha anche il merito di riportare in piena luce le responsabilità della strage, che certamente sono dei nazisti, nel quadro del loro articolato e sanguinario sistema d’occupazione che in Italia costa la vita a più di 23 mila persone, tra cui molte donne e bambini, vittime inermi di atti violenti, stragi ed eccidi, ma coinvolgono direttamente anche i fascisti della Rsi. La Questura di Roma, come è noto, partecipa attivamente alla selezione delle vittime, contribuendo a raggiungere il numero stabilito ma, come evidenziano gli autori, la metà delle vittime è arrestata da italiani, autonomamente o in collaborazione con i tedeschi come basisti, infiltrati, spie o esecutori materiali del fermo, anche grazie a una estesa rete di delatori prezzolati, pronti a vendere ebrei e patrioti (rispettivamente 101 arrestati in autonomia e 69 insieme ai tedeschi). E le biografie ci raccontano anche il clima di terrore delle prigioni naziste e fasciste, le torture e le violenze subite dalle vittime, alle quali pure c’era chi reagiva con grande coraggio e ironia, come il generale Sabato Martelli Castaldi, di Cava de’ Tirreni, rinchiuso a via Tasso, che in un messaggio clandestino alla moglie rivela: «Penso la sera in cui mi dettero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi, nonché varie scudisciate in parti molli, e cazzotti di vario genere. Io non ho dato loro la soddisfazione di un lamento, solo alla 24ª nerbata risposi con un pernacchione che fece restare i manigoldi come tre autentici fessi».