Corriere della Sera, 18 marzo 2024
Intervista a Mario Lavezzi
Mario Lavezzi ha in casa una chitarra a nove corde. «Tra le tante che ho avuto è una delle due a cui sono affezionato e la terrò sempre». In effetti è una rarità. Nel senso che le tre corde basse sono singole mentre solo quelle più alte, dal sol al mi cantino, sono doppie come in una chitarra a dodici: «È perfetta se vuoi accompagnarti con degli accordi belli pieni senza il raddoppio dei bassi all’ottava che spesso è inutile». Ecco: forse una vita intera dedicata alla musica – non solo come autore, produttore, cantautore, ma anche in quelle parti che si chiamano amori, amicizie e tutto il resto – sta già nel calore con cui si può dire una frase come questa, guardando fuori dalla finestra, verso i tetti del centro di Milano. Così, a metà di una chiacchierata che sta già andando avanti da oltre un’ora nel suo soggiorno, Lavezzi va a prendere quello strumento, lo imbraccia e dice «scusa ma questa te la devo far sentire». E attacca una versione italiana di Jesus Christ Superstar, nel punto del famoso ritornello: «Lei non c’è, lei non c’è, / esce con tutti ma non con te. / Vieni al bar, vieni al bar / e lascia perdere Superstar...». E lì però la risata gli scappa: «Cioè, Herbert Pagani traducendo il testo aveva trasformato Superstar nel soprannome di una donna che era meglio mollare, capito?».
Quand’era?
«Direi più o meno il 1970. A registrare il pezzo – commissionato dalla Coca Cola – c’era una Pfm agli esordi, per dire. La casa discografica era la Numero Uno: che chiamarla rivoluzionaria è poco, per chi c’era. E a cantare era un gruppo il cui nome era stato inventato da Lucio Battisti».
Eh già: Flora Fauna Cemento. Lui però nella formazione non c’era.
«No, e anzi la formazione è cambiata più volte. Era derivata da un trio che avevo fondato nel ‘69 con Bruno Longhi e Sergio Poggi, con cui facevamo i pezzi di Jimi Hendrix. Anni pazzeschi, a prescindere da noi. Con una creatività in giro che a pensarci oggi fa impressione. In pochi mesi venivano fuori decine di cose che ancora adesso continuiamo a cantare. Mogol e Battisti scrissero per noi Mondo blu e Un Papavero mentre usciva La canzone del sole e Lucio registrava in contemporanea due interi album, Il mio canto libero e Umanamente uomo: il sogno».
Battisti.
«Era sempre un chilometro più avanti di tutti gli altri. Preciso fino a essere maniacale. Per me un maestro totale. E un grandissimo amico. Una persona come ne nascono poche».
Un attimo: come ci siamo arrivati a Battisti?
«Partendo dal Giambellino, la Milano più popolare, dove abitavo da bambino. Mio papà, laureato in Legge, lavorava per una grande industria. Mia mamma era l’artista, scriveva anche novelle. Di musica in casa se ne ascoltava tanta, da Gershwin e Sinatra allo swing italiano di Natalino Otto. Ma per entrambi l’importante era che prendessi un diploma, altro che suonare».
Invece?
«Invece io guardavo solo una chitarra appesa nella camera di un mio cugino. La svolta fu quando mia sorella Annabella, otto anni più grande, si diplomò alle magistrali si regalò una chitarra. Mi vietò di toccarla. Ma non mi avrebbe fermato neanche sparandomi».
È la famosa altra chitarra di cui sopra?
«Esattamente. Da quel momento cominciai a passare ogni pomeriggio sulle panchine di piazza Napoli, non lontano da casa, con altri ragazzi malati di musica come me. A insegnarmi i primi accordi fu un amico appena più grande, Franco Bastoni, che aveva già un complessino».
Cos’era Milano?
«Una città incantata, nonostante la vita dura. Soldi ne giravano pochi, ma la musica era ovunque. Un giorno il mio maestro Franco mi dice che ha un concerto per un festival studentesco e mi chiede di accompagnarlo. Avevo quattordici anni. E la mia vita è cambiata per sempre».
Con i Trappers.
«Il mio primo gruppo. Nato nel 1963 all’oratorio di San Vito a Milano. E mentre cercavo di accontentare i miei per il pezzo di carta – alla fine ci sono riuscito, ragioniere non so come – abbiamo cominciato a suonare ovunque. E non solo a Milano. Un’estate Teo Teocoli ci chiama a fare con lui la stagione in un locale di Finale Ligure, lo Scotch Club. Il contratto l’hanno firmato i miei, io ero minorenne. Suonavamo dalle nove di sera alle tre di notte. E lì il mestiere della musica lo impari eccome».
Tra i successi una chicca imperdibile: «Ieri».
Ride. «Testo memorabile: Ieri a lei / io non ho voluto credere /Era tutto così facile / Ma ieri lei è andata via».
La versione italiana di «Yesterday».
«Oh yes. A mia discolpa posso dire che la traduzione non era mia. A nostro orgoglio però aggiungo che tradurre i successi stranieri allora era normale. E ha avuto una sua importanza».
E un giorno arriva una telefonata.
«Riki Maiocchi aveva lasciato i Camaleonti, dovevano suonare a Roma e il loro manager Gigi Fiume Menegazzi mi chiede se voglio andare. Mio padre mi disse: se vuoi vai, ma dovrai mantenerti. Sono partito per Roma col Maggiolino. Poco tempo dopo grazie alla musica ero riuscito a comprarmi una Porsche (usata)».
Urca.
«Rispetto ad altri che facevano lo stesso mestiere era poco: tra i cantanti di successo lo status symbol era avere una Rolls. Può suonare strano, perché erano anche gli anni della contestazione studentesca. Ma erano anni così».
Parco Lambro a Milano.
«Eh, lì eravamo già in pieni Anni 70. Con il Volo e gli Area per poter suonare nelle tournée di Re Nudo abbiamo dovuto affrontare una specie di processo politico. Proprio al Parco Lambro Pappalardo fece l’errore di arrivare in Mercedes e non fu un bel momento. Ma allora perfino i cantautori venivano contestati perché facevano pagare il biglietto che invece doveva essere “proletario”, cioè gratuito».
Ok, eravamo ai Camaleonti.
«È finita perché mi arrivò la cartolina militare. Per carità, quasi subito imboscato al distretto di Milano. Ma ero a terra. In un pomeriggio di malinconia buttai giù la prima canzone della mia vita. In un primo momento scrissi il testo con Cristiano Minellono e il titolo era Giovedì 19. La proponemmo a Mogol, ma lui e Battisti avevano appena scritto 29 Settembre, ci disse “cos’è, facciamo il calendario?”. Cambiò il ritornello e una strofa, così nacque Primo giorno di primavera, cantata dai Dik Dik prodotti proprio da Battisti e Mogol. Uscì il 21 marzo, a settembre entrò in classifica e ci restò sei settimane».
Passiamo a un gioco di nomi: Bertè.
«Un’artista straordinaria, una grande storia d’amore, una palestra di vita».
Un po’ meno sinteticamente?
«Una sera ero all’Arlati, ristorante sotto il quale con Mogol e Alberto Radius avevamo aperto un locale. Un riferimento per moltissimi artisti tra cui quelli della Numero Uno. Era lo stesso periodo in cui su idea di Mogol avevamo fondato Il Volo con Radius, Vince Tempera, Gianni Dell’Aglio, Bob Callero e Gabriele Lorenzi: eravamo il progressive italiano, con Pfm, Banco, Area...».
Bertè.
«Appunto, una sera ero lì e arriva Marcella Bella con quest’altra bellezza mozzafiato, Loredana. Quella sera mi sono offerto di accompagnarla all’albergo dove alloggiava. In macchina le ho fatto sentire una mia nuova canzone che le piacque molto, ci scambiammo i numeri. Ed è iniziata una storia durata cinque anni. Più tardi, vedi la vita, fu lei a parlarmi per la prima volta di una bellissima ragazza che aveva conosciuto, una certa Mimosa. “Se la vedi la sposi”, mi disse. È diventata mia moglie».
Per Loredana ha scritto con Oscar Avogadro «E la luna bussò».
«Era tornata dalla Giamaica con una pila di dischi di Bob Marley, voleva una canzone fatta così. Io le avevo appena affidato Dedicato di Ivano Fossati, su misura per lei. Ma poi quel pezzo reggae, genere ancora poco conosciuto da noi, è diventato il singolo dell’album Bandabertè che è stato in classifica parecchio tempo».
Oxa, Mannoia.
«Il lavoro di produttore sta nel trovare la canzone giusta per quell’interprete. È lavoro di ricerca, a prescindere dalle canzoni di cui magari sei autore. Posso fare l’esempio di “Come si cambia”, scritta da Pareti e Piccoli, che ho prodotto per Fiorella, la quale partecipando a Sanremo ne ha fatto un grande successo. Anna e Fiorella sono state produzioni formidabili, nella loro diversità. E la carriera che hanno fatto parla per loro».
Dalla, Morandi.
«Lucio cercava canzoni per il grande evento dell’album che avrebbero registrato insieme. Io ne avevo una scritta con Mogol, Angeli sporchi. L’avevo proposta a Mina e Fiorella, non le aveva convinte. Iniziava con “Cara in te ci credo”. Lucio disse “perfetta, ma cambiamo Cara con Vita”. Lucio aveva un’apertura mentale come pochi».
È stato il grande ritorno di Morandi.
«Ricordo quella che sempre con Mogol scrivemmo per lui in una mattina. Per il ritornello ci voleva una risoluzione, io aggiunsi una parte musicale e lui tirò fuori quella frase: “In questo grande immenso bisogno d’amore che ho”. Varietà la senti una volta e non te la scordi più»
Mezzo secolo di carriera. Bilancio?
«La musica è stata ed è la mia vita. Ma il mio riferimento, l’ho imparato con gli anni, è la famiglia. Mia moglie, i nostri figli Giulio e Marco.
Mannoia e Oxa
Il mio lavoro sta nel trovare il brano giusto per ogni cantante. Fiorella e Anna sono state produzioni formidabili: la loro carriera parla da sola
Futuro?
«I giovani. Il progetto a cui sono più affezionato, che porto avanti dal 2015 con il Comune di Milano e ora anche con il Corriere, Radio Zeta, Rollingstone e Dire giovani è Campus Band – Musica & Matematica: dedicato a cantautori, interpreti e gruppi provenienti da scuole superiori e università, massimo 30 anni. Come dice Mara Maionchi, amica del cuore fin dai tempi della Numero Uno, la musica nelle scuole dovrebbe essere una priorità. La finale, anche quest’anno, in estate al Castello Sforzesco».