il Giornale, 17 marzo 2024
I poteri dei gatti
«Dio creò il gatto per offrire all’uomo il piacere di accarezzare la tigre», scrisse il drammaturgo Joseph Méry. «Il gatto è l’unico animale che è riuscito ad addomesticare l’uomo», scrisse l’antropologo Marcel Mauss. Chi sta dalla parte di Méry è antropocentrico, chi sta dalla parte di Mauss è felinocentrico. Poi c’è anche chi sta nel mezzo, e la pensa come l’etologo Bertrand Deputte: «Il gatto non ci appartiene, siamo noi che apparteniamo a lui». Essendo etologo, Deputte ha più voce in capitolo di Méry e di Mauss, nel parlare di gatti, ma la sua, tutto sommato, è una semplice constatazione. Lasciamo pure da parte il ricorrente luogo comune sul cane altruista e il gatto egoista, e stiamo ai fatti, ben sintetizzati dalla ricercatrice britannica Mary Bly: «I cani accorrono quando vengono chiamati. I gatti ascoltano il messaggio e ti richiamano più tardi».
Il gatto, quando ha la fortuna di godere di sufficienti margini di libertà, quando cioè non è diventato, nelle nostre case, un soprammobile ambulante, va e viene a suo piacimento, mentre il cane quando vuole andare, corre a prendere il guinzaglio e ce lo porta, sgranando gli occhioni e supplicandoci di uscire. Il gatto si fa la dieta da solo, come hanno dimostrato gli studi sull’assunzione equilibrata di proteine, carboidrati e grassi, mentre il cane, quando siamo a tavola, appoggia il muso sulle nostre gambe ed elemosina di tutto, dall’acciuga al bignè. E se il cane, quando si rivolge all’uomo parla la stessa lingua che usa per comunicare con i propri simili (abbaia, guaisce, ringhia), il gatto è talmente intelligente da aver elaborato una lingua apposita da usare con noi. Infatti i gatti selvatici miagolano soltanto da piccolissimi, per attirare l’attenzione della madre, e poi, una volta cresciutelli, se ne stanno zitti e vigili. Invece il gatto domestico, «dopo un periodo di tentativi ed errori (...) riesce a modulare i suoi miao in base all’efficacia che hanno sul padrone», e i miagolii «hanno anche proprietà fisiche individuali, che derivano dalla firma vocale di ciascun animale e dalle sue capacità di apprendimento».
Abbiamo citato l’etologa francese Jessica Serra, da Nella testa di un gatto (Carocci, pagg. 194, euro 19, traduzione di Cristina Spinoglio), e quest’ultima è una fra le notizie che anche a un gattofilo non praticante, quale è lo scrivente, suscitano ammirazione e affetto per i vari «Felix», come li chiama l’autrice. Notizie che fra l’altro chiamano il ricordo di certi gatti letterari, come il protagonista del romanzo di Soseki Natsume Io sono un gatto (1905-6), promosso da vagabondo a stanziale nella casa del professor Kushami e ben presto diventato, narrando in prima persona, la coscienza critica della famiglia, fra questioni di economia domestica, rapporti di vicinato e tormenti sentimentali, o come il gatto Murr di E.T.A. Hoffmann (1819-21), il quale sa leggere e scrivere, e le cui creazioni poetiche suscitano l’invidia di un professore di estetica...
Connessa alla lingua che potremmo chiamare miaoese, è la questione delle fusa, che sono molto più di un rilassante ron-ron per il padrone spalmato sul divano e con il proprio micio sulla pancia. Studiosi di bioacustica hanno registrato il suono delle fusa, fra i 25 e i 50 Hertz, notando che questa gamma di vibrazioni viene utilizzata in medicina «nel trattamento della crescita ossea, delle fratture, della flessibilità articolare, del dolore, di alcuni problemi respiratori e delle lesioni». Insomma, i gatti le userebbero per stimolare la loro cicatrizzazione interna e migliorare il tono muscolare, abbassato dall’ozio quotidiano. Quelle che abbiamo sempre considerato segni di soddisfazione o di piacere del gatto imborghesito, potrebbero essere autentiche terapie anche per gli umani? Oggi non possiamo rispondere con certezza, ma qualcuno si è già portato avanti e ha brevettato un braccialetto simulatore di fusa.
Nella testa di un gatto, quindi, ci sono così tante cose, e tante facoltà ancora misteriose, che «gli scienziati hanno tentato di creare un cervello artificiale di gatto simulando il funzionamento della sua corteccia cerebrale – la parte pensante del suo encefalo. (...) Hanno quindi creato modelli di alcuni comportamenti applicando formule matematiche sotto forma di algoritmi». Per ora «la simulazione non è molto realistica perché non utilizza materiale biologico (...) non siamo ancora in grado di ricreare fenomeni come l’autocoscienza e l’intuizione (insights), ma se un giorno ci riusciremo, sarà possibile che la macchina giunga al livello dell’intelligenza e della coscienza». E il solito Elon Musk si è lanciato addirittura in una profezia: gli umani diventeranno presto i gatti di casa delle macchine intelligenti.
Quel che è certo è che i gatti, quelli veri, sono messi molto meglio di noi quasi in tutto, riguardo ai sensi (i cinque tradizionali, perché il sesto – quel certo non so che – è loro riconosciuto da millenni, da quando, diecimila anni fa, nella mezzaluna fertile del Medio oriente, cominciarono la loro scalata sociale nella comunità zoologica, eliminando i topi razziatori di sementi e guadagnandosi la riconoscenza degli umani). I cuscinetti sotto le loro zampe danno equilibrio e molte informazioni sul territorio; il loro udito è finissimo, anche se spesso fanno finta di non sentire le nostre scempiaggini; il loro campo visivo è di 260 gradi, ottanta più del nostro, e la nictalopia ne fa dei radar viventi anche al buio. D’accordo, non distinguono bene i colori, tranne il blu e il giallo, però compensano con l’organo vomeronasale, comune ad altri animali e per noi pressoché silente come un residuato ancestrale, che consente prestazioni super. Soltanto le loro papille gustative non sono il massimo: non percepiscono il dolce (ma tanto nella dieta non contemplano marmellate o pastiere napoletane...). Se aggiungiamo la memoria da elefante, il senso dell’orientamento da ape, la cognizione del rapporto causa-effetto e la capacità di apprendimento, abbiamo un prodigio della Natura.
Ma ovviamente ogni padrone considera il proprio gatto migliore degli altri, un genio insuperabile della gattità. Ed ecco, appena svoltato il triste angolo della dipartita del micio, la tentazione (umana, troppo umana) della clonazione. Basta pagare, e si può. Però attenzione, se tutto andrà bene (o male) micio 2 sarà fisicamente uguale a micio 1. Tuttavia nella sua testa ci sarà un altro mondo, un altro individuo. Verrebbe da dire: un’altra persona.