Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  marzo 17 Domenica calendario

La figlia del generale Anders: «Liberò l’Italia dai nazisti e trovò l’amore. Combatteva con un orso, riuscì a fregare Stalin»

Ottant’anni fa, in questi stessi giorni, iniziava la più furente battaglia della seconda guerra mondiale, tra quelle combattute nel nostro Paese. La vinsero i polacchi, che presero Montecassino e sfondarono la linea Gustav, sbaragliando i nazisti e aprendo la via di Roma. A Montecassino sono sepolti 1070 caduti che, com’è scritto sulla lapide, diedero «il corpo all’Italia, l’anima a Dio, i cuori alla Polonia». Qui riposa anche il loro comandante, il leggendario generale Władysław Anders, con la moglie Irena. Lui era il capo del corpo di spedizione polacco; lei un’artista che cantava per i soldati. Si videro, si amarono. Nacque una bambina, che chiamarono Anna Maria. Quella bambina oggi è l’ambasciatrice della Polonia in Italia.
Ambasciatrice Anders, qual è il primo ricordo di suo padre?
«Mi portava al parco, a prendere il gelato, al circo. A scuola. E d’estate al campeggio. A Londra, dove sono nata, era uno sconosciuto. Solo molto tempo dopo ho capito che in Polonia era un eroe».

PUBBLICITÀ

Che tipo di papà era?
«Dolce. Fantastico. E poi era un uomo bellissimo. Io adoravo mio padre. Gli altri lo pensavano come un generale austero e duro, con le uniformi, le medaglie... In realtà mi lasciava fare tutto quello che volevo. Se sono diventata una persona perbene, lo devo a mia madre, che invece era molto severa (Anna Maria Anders sorride).
Con lei i suoi genitori parlavano polacco?
«Certo. Era una casa molto patriottica, molto polacca. Venivano persone importanti da tutto il mondo».
Chi?
«Altri generali, che trovavo un po’ noiosi. E politici, compreso Churchill; anche se proprio non me lo ricordo. Mio padre trattava tutti allo stesso modo, camerieri e capi di Stato. Detestava gli snob. Aveva aperto la “macierz szkolna”, una scuola per bambini: durante la settimana andavamo alla scuola inglese, e il sabato ci ritrovavamo là. La comunità aveva i suoi giornali, i suoi club, i suoi ristoranti, i suoi teatri, dove cantava mia mamma... una piccola Polonia».
Suo padre nacque nel 1892 in una regione che faceva parte dell’impero zarista, e fece la prima guerra mondiale con i russi.
«Sì, e fu ferito, più volte. Ma nel 1919, quando la Russia bolscevica ci attaccò, combatté con l’esercito polacco. Fu il miracolo della Vistola: in vista di Varsavia, il sole spuntò all’improvviso, accecando l’Armata Rossa; vincemmo e ci salvammo».
Erano gli anni del maresciallo Pilsudski.
«Tutti si inchinavano davanti a lui, ma mio padre gli teneva testa. Lo trovava autoritario, non partecipò al suo colpo di Stato. Però Pilsudski lo stimava, e lo promosse generale».
Nel 1939 tedeschi e russi aggredirono la Polonia, e la cavalleria polacca andava all’attacco dei carri armati.
«Il capo dei cavalieri polacchi che andarono all’attacco dei carri armati russi era lui. Fu ferito altre tre volte, fatto prigioniero, portato all’ospedale di Leopoli».
Undicimila ufficiali polacchi furono fucilati dai russi nella foresta di Katyn.
«Un crimine di cui fino agli anni 70 era vietato parlare. I russi avevano tentato di attribuirlo ai tedeschi. Papà si salvò perché era prigioniero a Mosca, alla Lubjanka. Torturato dai sovietici, che volevano costringerlo a collaborare con loro».
Come fece a resistere alle torture?
«Grazie all’amor di patria e alla fede. Era evangelico, si convertì al cattolicesimo».
Nel 1941 i tedeschi attaccarono l’Urss, e divennero nemici.
«I prigionieri polacchi furono amnistiati. Stalin aveva un debole per mio padre, la sua ostinazione gli piaceva. Così gli affidò un’armata da 40 mila uomini. Ma papà raggirò Stalin, e portò via dai campi in Siberia anche centomila civili, compresi bambini, donne e seimila ebrei, che non avrebbero retto all’inverno russo. Fu una marcia della libertà. Segnata dal dolore, infatti è punteggiata da cimiteri. Ho voluto ripercorrerla, sulle loro orme».
Che strada ha fatto?
«Sono partita da Buzuluk, in Russia, dove c’è ancora l’ufficio di mio padre, rimasto tale e quale: mi sono seduta alla sua scrivania. Da lì i polacchi attraversarono il Kazakhstan e l’Uzbekistan, per arrivare in Iran, che era controllato dagli inglesi. Poi, attraverso l’Iraq e il Medio Oriente, la meta finale: l’Italia. Tremila rimasero in Palestina, dove costituirono il primo nerbo dell’esercito israeliano: Menachem Begin, il premier della pace con l’Egitto, era uno di loro».
Combatterono anche le donne.
«Chi se la sentiva venne arruolata come ausiliaria e infermiera. Migliaia di ragazzi erano orfani di guerra, e papà si preoccupava che studiassero. Molti furono dati in adozione in tutto l’impero britannico, dall’India alla Nuova Zelanda. I più grandi scelsero di combattere».
Lo stemma del secondo corpo polacco, comandato da suo padre, è un orso che porta un proiettile. Il mitico orso Wojtek.
«In italiano sarebbe Adalberto. È una storia che si racconta per appassionare i bambini...».
Ce la racconti come fa con i bambini.
«In Iran c’era questo cucciolo di orso che aveva perso la mamma, abbattuta dai cacciatori. I soldati polacchi lo adottarono e lo portarono con sé. Si racconta che bevesse birra e fumasse sigarette... Di sicuro per i fanti la lotta con l’orso era una prova di forza e di coraggio. Noi la chiamiamo zapasy, è una specie di wrestling».
Vinceva l’orso immagino.
«Per lui era un gioco. Sopravvisse alla campagna d’Italia, trovò riparo nello zoo di Edimburgo, dove tanti andavano a trovarlo. Quando sentiva parlare polacco si eccitava tutto».
Montecassino.
«Fu una battaglia durissima. Alla vigilia dell’assalto decisivo, mia madre cantò per le truppe. I suoi occhi incrociarono quelli di mio padre. Si innamorarono».
Suo padre era già sposato.
«Anche mia madre. Ma l’amore fu più forte. Era una delle artiste della “Polska Parada” al seguito delle truppe, c’erano anche attori, pittori, scrittori come il giovane Gustaw Herling, che in Italia avrebbe sposato la figlia di Benedetto Croce».
A Roma entrarono per primi gli americani.
«Ai polacchi dissero che dovevano riposarsi dopo il massacro di Montecassino. Quando arrivarono furono accolti dai padri resurrezionisti di san Sebastianello, in piazza di Spagna, con l’offerta rituale del pane e del sale. Poi arrivò la doccia fredda della conferenza di Jalta».
La Polonia assegnata all’Unione Sovietica.
«Mio padre protestò: avevano versato il sangue per una Polonia libera; e lui era antifascista e anticomunista. Però decise di continuare a combattere. I polacchi hanno liberato Loreto e Ancona. Sono entrati a Predappio, la città del Duce. Hanno preso Bologna. Molte città italiane hanno dedicato strade a mio padre, altre lo faranno ora per l’ottantesimo anniversario di Montecassino. Compresa Roma».
Il dopoguerra fu duro.
«I soldati polacchi furono mandati in Inghilterra. Molti avevano sposato ragazze italiane, che persero la nazionalità; così tante coppie, rimaste apolidi, andarono in Argentina. I soldati di mio padre furono esclusi dalla parata per la vittoria a Londra, per non irritare i russi».
Non tornò mai in Polonia.
«In patria era stato condannato alla damnatio memoriae. Il suo ultimo viaggio fu in Italia, nel 1969, per visitare il cimitero di Montecassino. Era già malato di cuore. I medici volevano proibirgli di partire, dicevano: se vai, muori. E lui: meglio, tanto voglio essere sepolto lì. L’abbiamo accontentato. Ora riposa a Montecassino, accanto alla mamma».
Ha mai conosciuto Wojtyla?
«Nel 1979, l’anno dopo la sua elezione, venne a Montecassino, vide mia madre in prima fila, e le disse in polacco: “Saluto la moglie del generale!”. Sempre là ho conosciuto l’addetto militare americano, Robert Costa, di famiglia genovese, veterano del Vietnam, e l’ho sposato. Ora purtroppo è morto».
Avete figli?
«Un maschio. Si chiama Robert come il padre e Władysław come il nonno. È un ranger dell’esercito americano».
Qual è l’eredità di suo padre?
«La lotta per la libertà, che non è mai finita, come ora dimostrano gli ucraini. Sino alla fine della sua vita ebbe il rimpianto per i polacchi morti nei gulag. Avrebbe voluto salvarne di più, avrebbe voluto salvarli tutti».
Avrà avuto un difetto.
«Gli piacevano le donne».