Corriere della Sera, 17 marzo 2024
A proposito del debito comune
C’è un numero che si aggira per l’Europa: 480 miliardi di euro all’anno da spendere nel periodo 2021-2030 per investimenti addizionali necessari a raggiungere l’obbiettivo di emissioni CO2 nette per il 2030. È una stima della Commissione europea ed ammonta a più di quattro trilioni. Non c’è riunione europea in cui non se ne parli. È una cifra a cui ha anche fatto riferimento recentemente Mario Draghi. Immaginiamo che questi numeri informeranno il rapporto sulla competitività dell’Unione che il nostro ex presidente del Consiglio sta preparando. La competitività dell’Unione dipende in gran parte da come si affronterà la transizione energetica in una situazione che la trova a fronteggiare, a differenza degli Stati Uniti, una scarsità di energia e, quindi, alta volatilità di prezzo. Oltre a questo svantaggio competitivo, l’Europa ha quello di avere un mercato interno segmentato e una limitata integrazione del mercato dei capitali. Questo spiega a sua volta un basso investimento privato in ricerca e sviluppo relativamente agli Stati Uniti e rende imperativo aumentare la capacità di spesa pubblica e privata in questa direzione. La European Environmental Agency stima che le politiche in cantiere allo stato attuale siano insufficienti per raggiungere gli obbiettivi di emissioni nette che ci siamo dati per il 2030. Una strategia basata esclusivamente sulla tassa del carbonio non basta. Abbiamo bisogno di aumentare gli investimenti.
L’ «Inflation Reduction Act» degli Stati Uniti, che ha messo in campo più di 700 miliardi di dollari di sussidi per incentivare investimenti in energia rinnovabile made in Usa è un campanello di allarme per l’Europa.
Gli investimenti necessari dovranno in parte essere affrontati dal settore pubblico – circa il 20-25% secondo le stime della Commissione. Date le finanze pubbliche più che stressate degli Stati membri, non è chiaro dove si troveranno le risorse.
Come già detto da molti, oltre a impegni nazionali, si ha bisogno di uno strumento europeo. Le ragioni sono tre. La prima motivazione è che l’efficienza energetica beneficia di un coordinamento tra Paesi. Come è stato scritto dal think-tank Bruegel, l’energia rinnovabile – per svilupparsi – ha bisogno che Paesi e regioni europee siano connessi da una infrastruttura comune e questo è particolarmente importante per il mercato dell’elettricità dalla cui efficienza dipenderà il prezzo dell’energia mano a mano che la decarbonizzazione va avanti. Ma è importante anche per sostenere l’investimento in ricerca e sviluppo che beneficia di collaborazioni su larga scala. La seconda motivazione è che sussidi a livello nazionale che beneficiano dell’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato distruggerebbero il mercato unico e darebbero un grande vantaggio comparato ai Paesi cone una maggiore capacità fiscale. E la terza ragione è che se si creasse un fondo europeo per l’investimento nella transizione, finanziato almeno in parte con debito comune, si beneficerebbe di tassi, forse più alti di quelli a cui la Germania rifinanzia il suo debito, ma sicuramente più bassi di quelli italiani.
Nel nostro Paese, la discussione si è soprattutto focalizzata sulla terza motivazione. A tutti piace il debito comune. È l’unica proposta condivisa dall’intero schieramento politico. Ma se è sicuramente condivisibile l’idea che i beni comuni – e la transizione energetica è sicuramente uno di questi – siano finanziati con risorse comuni, è una illusione pensare che quel 25% dei 4 trilioni che servono per i prossimi sei anni per rispettare il target di emissioni possano essere interamente finanziati a debito.
Un fondo per il clima, se mai si farà, dovrà essere incorporato nel bilancio europeo. Ma questo implica o una riallocazione a scapito delle spese che attualmente pesano di più, coesione territoriale e agricoltura, o un aumento dei contributi dei Paesi membri o, alternativamente, più tasse comuni. Poi certo c’è l’opzione del debito ma è improbabile che tutta la spesa necessaria vada a debito e in ogni caso il debito va prima o poi rimborsato. Questo è ovviamente anche il caso del debito legato al Next Generation Eu il cui costo andrà affrontato o con nuovo debito che il Nord Europa non vuole o con nuove tasse.
Ciò significa che la retorica del debito comune come soluzione di tutti i problemi è, appunto, retorica. Ma appare anche vuoto invocare l’unione dei capitali e l’approfondimento del mercato unico. Tutti sanno che un’Europa più integrata sarebbe più efficiente, ma gli Stati nazionali – tutti – sono riluttanti a cedere sovranità. Il cammino è lungo e richiede un capitale di fiducia che va costruito.
Transizione climatica, politiche sociali ad essa connessa (compensare chi perde) e qualsiasi altro progetto legato alla competitività e all’autonomia strategica dell’Europa dovrà essere quindi sostenuto da strumenti intelligenti e ibridi basati su cooperazione tra Paesi su settori specifici, idealmente con un limitato supporto di fondi europei, ma anche con risorse nazionali. Puntare, quindi su soluzioni che aumentino l’integrazione e l’efficienza di mercati chiave a cominciare dal mercato dell’elettricità. L’Unione europea, in fondo, si è sviluppata all’inizio con una serie di trattati che definivano la cooperazione in settori strategici. Nel 1952, con il Trattato di Parigi, la Francia, i Paesi del Benelux, la Germania occidentale e l’Italia costituirono l’unione del carbone e nel 1957, con il Trattato di Roma, la Agenzia Atomica Europea. Forse sarebbe bene pensare a quegli esempi per disegnare modelli di collaborazione pragmatici sulla cui base si possa costruire il percorso di un progetto di integrazione più ambizioso.