Estratto dell’articolo di Alessandro Di Profio per "il Venerdì di Repubblica", 15 marzo 2024
PUCCINI, IL PIÙ ASCOLTATO MA ANCHE IL PIÙ STRUMENTALIZZATO – ACCUSATO DI FASCISMO E ORA ANCHE DI MISOGINIA, RAZZISMO E IMPERIALISMO, IL GRANDE COMPOSITORE VIENE SNOBBATO PER IL CENTENARIO DELLA SUA MORTE. SOLO QUATTRO TEATRI HANNO SCELTO DI INAUGURARE LE LORO STAGIONI CON UN TITOLO PUCCINIANO. E ALL’ESTERO, DOVE ASSICURA SEMPRE IL SOLD OUT, LO EVITANO O RISCRIVONO LE SUE OPERE PER RISPETTARE IL POLITICAMENTE CORRETTO – LA MANIPOLAZIONE DI MUSSOLINI SULLA SUA ISCRIZIONE AL PARTITO NAZIONALE FASCISTA -
«Sarà sufficiente parlare dell’uomo cordiale, della caccia, dell’affabilità, dell’amico, nulla del resto». Antonio Puccini fissava nel 1938 la scaletta di un discorso commemorativo. Quel “resto” sul padre Giacomo era già ingombrante. Commerciale. Amante del lusso e dei motori. Fascista. Poi, ci si è messa la cancel culture. Misogino. Razzista. Imperialista. E s’infoltisce il rango di chi esige la revisione delle sue opere (dal libretto alla musica). Il centenario della morte di Giacomo Puccini, avvenuta il 29 novembre 1924 a Bruxelles, rischia di riportare a galla diatribe vecchie e nuove.
Puccini è il compositore lirico più eseguito nel mondo, dopo Verdi e Mozart. Tre sue opere figurano nella top ten: La bohème, Tosca e Madama Butterfly. […] La popolarità tuttavia gli nuoce: il successo preso per disvalore. Per D’Annunzio […] era solo un compositore alla ricerca di «una cosetta leggera da musicare in pochi mesi, tra un viaggio e l’altro». Ma l’affondo più violento lo portò il musicologo Fausto Torrefranca nel 1912: gli rimproverò «decadenza», «impotenza» e «tutta la cinica commercialità» del melodramma. Parole sante per l’avanguardia italiana anti-pucciniana.
Anche Luciano Berio si sarebbe unito al coro, ma poi avrebbe completato il finale incompiuto di Turandot. Eppure, da Stravinskij a Schönberg, passando per Webern e Ravel, non mancarono gli ammiratori. Quando il Venerdì chiede a Roberto Abbado perché lo zio Claudio non avesse mai diretto un’opera di Puccini, la risposta non lascia equivoci.
«A casa Abbado, Puccini non godeva di molta stima. Penso che questo venisse da mio nonno Michelangelo, influenzato dalle tesi di Torrefranca. Peccato, perché Claudio ci avrebbe consegnato una lettura europeista, ereditata da Toscanini, ricca di rimandi a un vasto repertorio da Wagner a Smetana».
[…] E politicamente? La notizia della morte di Puccini venne data al parlamento da Mussolini che, da scaltro manipolatore della comunicazione, aggiungeva: «Alcuni mesi or sono questo insigne musicista chiese la tessera del Partito nazionale fascista». Ometteva un dettaglio, ricordato nel Puccini di Virgilio Bernardoni (Il Saggiatore, 2023): il compositore ricevette una tessera onoraria, mai domandata. Incontrò il Duce per caldeggiare l’istituzione di un teatro, ma l’accoglienza supponente lo indispose.
Strumentalizzare il più famoso compositore italiano del Novecento resterà, in ogni caso, una tentazione forte. Giuseppe Pennisi gli fece indossare la camicia nera in un saggio per Nuova antologia: il ”vincerò” di Calaf assunto a simbolo del grido del maschio italico dal petto bombato. Lo scorso luglio, per l’apertura ufficiale delle celebrazioni, la direttrice Beatrice Venezi impose l’Inno a Roma. Giudicato da Puccini stesso come «una bella porcata», il pezzo piacque prima a Mussolini e poi all’Msi.
Basta farsi un giro su Facebook per vederlo rispuntare qua e là in ricordo di Giorgio Almirante. Non ci sta Michele Girardi, autore di una monografia ristampata più volte da Marsilio, tradotta in inglese dalla Chicago University Press e presto disponibile in una nuova veste per i tipi del Saggiatore. Dalla sua casa di Venezia, insorge: «Ma quale fascista! Era un conservatore. Antimperialista e pacifista». Il suo è un Puccini non convenzionale: «Un uomo colto e complesso, sempre alla ricerca di soluzioni linguistiche nuove». Musicalmente, certo, ma anche sul piano del costume. [...]
[…] Tutt’altra musica è quella che arriva dal mondo woke. Alla “musicologia femminista”, innanzitutto, non va proprio giù la fine tragica che il compositore, con la complicità dei librettisti, riservò alle eroine: in dodici opere, nove muoiono in scena. Inutile ricordare che l’opera otto-novecentesca risparmia raramente i protagonisti di entrambi i sessi, e che almeno in Puccini in tre casi (La fanciulla del West, Gianni Schicchi e La rondine) le donne la scampano e che solo una (Giorgetta nel Tabarro) muore per mano di un uomo. Niente da fare. Catherine Clément (L’Opéra ou la défaite des femmes, 1979) ha tuonato, facendo scuola. E Susan McClary, prendendosela con Madama Butterfly, non ha esitato a scrivere: «Aspetto il giorno in cui potremo mettere quest’opera in un museo di pratiche culturali bizzarre del passato».
Per spiegare la morte di Mimì e consorelle, il biografo Mosco Carner scomodò la psicoanalisi: colpa della mamma. Perché è noto che Puccini, allevato con sei sorelle (Temi morì a meno di un anno), avesse un rapporto fusionale con la madre Albina, rimasta vedova giovanissima. Questa lettura freudiana fa sorridere oggi, ma la questione gender continua a occupare il dibattito su un compositore spesso descritto come un predatore. Anche perché lui, fatalmente ignaro di quello che lo attendeva, si auto-descrisse come «un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d’opera e belle donne».
Nel primo numero della rivista dell’Opera di Roma, Calibano, dedicato a Madama Butterfly, la studiosa Alexandra Wilson va giù pesante, non esitando a presentare Puccini come «il compositore “sadico” per eccellenza nell’immaginario collettivo». Addirittura. Pur aggiungendo: «Tuttavia, non odiava le donne». In questo contesto, il Metropolitan di New York scelse nel 2021 di aprire le porte alla prima transgender con voce da baritono, Lucia Lucas, affidandole il ruolo di Angelotti nella Tosca.
[…] Dal gender alla cancel culture, il passo è breve. Qualche ora prima della rappresentazione della Madama Butterfly al Covent Garden nel 2007, il Guardian lanciò una bomba. Roger Parker, docente al King’s College e curatore dell’edizione critica di Tosca, ammoniva: «Una produzione autentica dell’opera senza modifiche è razzista. Non è solo una questione delle parole, ma anche della musica». L’ambasciata del Giappone fu costretta a redigere un comunicato spiegando di non sentirsi offesa dalla vicenda dello yankee Pinkerton che seduce e abbandona Cio-Cio-San. La Royal Opera House mantenne l’allestimento, […] per poi però passarlo al setaccio per oltre un anno prima di riprenderlo. Dai kimono al trucco bianco, fu aperta la caccia ai cliché.
[…] Puccini fu, in seguito, tacciato di essere «controverso» dal Bard Music Festival di New York. Mentre una compagnia sempre della Big Apple, la Heartbeat Opera, propose nel 2017 una revisione radicale di Madama Butterfly: un testo interamente tradotto, alternando l’inglese e il giapponese secondo i personaggi, la scelta di affidare i ruoli di Cio-Cio-San e dei suoi connazionali esclusivamente a cantanti della comunità asiatica e l’epurazione di tutti gli stereotipi, bollati come «oltraggiosi». Contrariamente all’originale, l’eroina alla fine non si suicida: «Perché c’è qualcosa di feticistico anche nel vedere l’atto giapponese del suicidio, dove il pubblico è impressionato dal gesto di cadere su una spada da samurai», spiegò il regista Ethan Heard al New York Times.
Qualche anno dopo, pure la Welsh National Opera, grazie alla regista Lindy Hume, dichiarava guerra alla «banale sfilata di kimono, fiori primaverili e contorni giapponesi da cartolina». Per non offendere nessuno, meglio evitare ogni riferimento e optare per una distopia asettica. Se la scena in cui l’indiano Billy viene costretto a bere nella Fanciulla del West non va giù, Turandot non la scampa di certo. Il regista Bob Wilson, nel 2019, fece cambiare i nomi di Ping, Pang e Pong: meglio Jim, Bob e Bill, «meno offensivi».
Prima di allestire l’opera dei tre enigmi, il teatro di Denver incontrò la comunità asiatica. La regista Aria Umezawa promise di «limitare i danni», scusandosi di non poter fare abbastanza contro il razzismo dell’autore – dato per scontato. Una questione presa sul serio dalla Cambridge University Press che in un recentissimo volume, Puccini in Context, consacra ampie pagine alla questione razziale e al gender, spulciando numerose produzioni degli ultimi 30-40 anni.
Il canadese Robert Carsen, atteso alla Scala a settembre per L’Orontea di Cesti, difende a spada tratta Puccini, cui si accostò quasi agli esordi. «Fu per me una rivelazione», racconta al telefono al Venerdì. «Era sempre avanti rispetto alla sua epoca: fu un grande difensore delle donne. Le sue eroine decidono. Anche “Butterfly” sceglie. Puccini sta dalla sua parte e non certo con Pinkerton». Carsen insiste sull’originalità della drammaturgia: «Nella Fanciulla ha inventato la musica dei western, tanto che la mia regia ha riletto l’opera con la lente del cinema».
[…] Sarà un centenario snobbato? […] solo quattro teatri hanno scelto di inaugurare le loro stagioni con un titolo pucciniano: il Comunale di Bologna (Manon Lescaut), il Maggio (La bohème), il Verdi di Trieste (di nuovo Manon) e il San Carlo (Turandot). L’opera partenopea ha avuto la meglio: sotto i riflettori della Rai, la regia di Vasily Barkhatov ha scatenato, sui social, commenti da curva sud. A Roma, Caracalla accoglie due titoli (Tosca e Turandot) e il Costanzi scompone il Trittico: dopo Il tabarro/Barbablù e Gianni Schicchi/L’heure espagnole è in programma Suor Angelica/Il prigioniero l’anno prossimo.
Alla Scala vanno in scena La rondine (regia di Irina Brook ad aprile) e Turandot (Davide Livermore, tra giugno e luglio), dirette rispettivamente da Riccardo Chailly e da Daniel Harding (che porta quest’opera a ottobre all’Accademia di Santa Cecilia, dove Michele Dall’Ongaro racconta tutto Puccini in dodici incontri). Difficile però fare meglio del Regio di Torino con cinque titoli quest’anno e un “festival Manon” per il taglio del nastro della prossima stagione: a ottobre, si alterneranno quella di Puccini, creata proprio a Torino nel 1893, e le opere omonime di Massenet e Auber. Tutte e tre affidate al medesimo regista: Arnaud Bernard. Ancora, dalle Villi a Turandot, con la regia dell’intramontabile Pier Luigi Pizzi, sei titoli a Torre del Lago quest’estate.
E all’estero? Puccini assicura il sold out. Ma al centenario allude solo il Met di New York (là dove Toscanini diresse la “prima” della Fanciulla del West nel 1910). Parigi brilla per assenza. Nulla all’Opéra-Comique, in cui Puccini rivisitò Butterfly nel 1906. Il Covent Garden punta al riciclaggio di tre opere, tra cui la produzione incriminata di Leiser/Caurier. Due nuovi allestimenti (Il trittico di Tatjana Gürbaca a febbraio e Turandot di Claus Guth a giugno) e due riprese zeffirelliane alla Wiener Staatsoper.
Il catalogo, ben più lungo, va stretto al Comitato promotore delle celebrazioni pucciniane nominato due anni fa dal presidente del Consiglio (allora, Mario Draghi) e presieduto da quell’Alberto Veronesi, figlio dell’oncologo Umberto, balzato alla ribalta per avere diretto La bohème bendato in opposizione al regista Christophe Gayral. Forte di un finanziamento di 9,5 milioni di euro (Verdi ne ebbe 6,5 nel 2013), Veronesi immagina collaborazioni fino ai Giochi olimpici del 2028 a Los Angeles. Tra dimissioni (già due tesorieri hanno sbattuto la porta) e polemiche a raffica contro una gestione giudicata torbida, il comitato non riesce a decollare. Un’altra (pesante) zavorra per il “Puccini 100”.