la Repubblica, 15 marzo 2024
Così Gobetti celebrò Matteotti
A cento anni dalla morte del deputato socialista per mano dei fascisti torna in libreria la biografia che gli dedicò l’intellettuale torinese. Anticipiamo la prefazione
Giacomo Matteotti ha trentanove anni. È segretario del Partito Socialista Unitario. Viene da una famiglia agiata del Polesine. Quando il Parlamento si riunisce per convalidare le elezioni del 1924, trasformate dalla violenza dei Fascisti, già al governo, in un plebiscito, la sua voce si leva forte e affilata per denunciare brogli, intimidazioni, aggressioni. Matteotti chiede che le elezioni siano invalidate. Mussolini garantisce che resterà al potere anche in caso di sconfitta. Giunta, un altro «camerata», afferma che alle opposizioni deve essere negato il diritto di opporsi. La richiesta di Matteotti viene ovviamente respinta. Qualche giorno dopo, il 10 giugno 1924, una squadraccia comandata dal sicario di regime Amerigo Dumini sequestra Matteotti «per dargli una lezione», secondo la versione processualmente più accreditata. Ma il giovane deputato viene assassinato, colpevole di aver reagito con tutte le sue forze al sequestro. La notizia della scomparsa di Matteotti si diffonde rapidamente. L’identità dei rapitori è presto nota. Già nelle prime ore nessuno nutre speranze sulla sorte del coraggioso onorevole. Sandro Pertini, che all’epoca ha ventotto anni, scrive di getto al segretario socialista di Savona, Italo Diana Crispi, e gli chiede la tessera del partito: «ho la mano che mi trema, non so se per il grande dolore o per la troppa ira che oggi l’animo mio racchiude. Non posso più rimanere fuori dal vostro partito, sarebbe vigliaccheria (…) ti chiedo di volermi rilasciare la Tessera con la sacra data della scomparsa del povero Matteotti (…) la sacra data suonerà sempre per me ammonimento e comando (…) raccogliamoci nella memoria del grande Martire attendendo la nostra ora. Solo così vano non sarà tanto sacrificio». Lo sconvolgimento per i fatti del giugno ’24 non investe soltanto i compagni di fede politica di Matteotti. Il fronte antifascista si mobilita. L’intero Paese è investito da un’ondata di indignazione. Il regime vacilla. È ancora Pertini a ricordarlo, molti anni dopo: «ero a Firenze nei giorni del delitto Matteotti. Mi stavo laureando in Scienze Politiche. Lì veramente bisogna riconoscere che le opposizioni perdettero l’occasione propizia. La gente, al caffè che frequentavo, si era tolta il distintivo del Fascio, c’erano paura, costernazione. Cesare Rossi, più tardi, a Parigi, ci raccontava di essere andato a Palazzo Chigi dopo l’assassinio di Matteotti, di aver preso Mussolini per le spalle gridandogli “sei un vigliacco”, mentre quello si limitava a mormorare “abbiamo perduto tutto”».
Mentre il fronte antifascista riflette sulla migliore strategia da adottare, un altro grande protagonista di quella stagione, Piero Gobetti, compone a tamburo battente una breve, ma densissima, biografia di Giacomo Matteotti. La sua fonte è Aldo Parini, compagno di Matteotti negli anni precedenti. Gobetti non è socialista, ma riconosce in Matteotti l’antifascista intransigente, alieno da ogni compromesso, il combattente duro e, se si vuole, testardo. Capace di sacrificarsi, come il martire descritto da Pertini, per non cedere alla violenza delle camicie nere. Difficile non cogliere, nella prosa lucida e nello stesso tempo veemente di Gobetti, un esplicito messaggio di unità, una chiamata alla lotta che, purtroppo, i veti incrociati e la nulla lungimiranza dei quadri dirigenti delle opposizioni vanificheranno. Ancora Pertini racconta: «l’opposizione era guidata da Giovanni Amendola, un uomo di una grande rettitudine, che però ripose sempre la sua fiducia nella monarchia. “La monarchia non può non intervenire, al momento opportuno lo farà” (…) andarono, quelli dell’Aventino, a Civitavecchia, con Amendola, in attesa del treno reale che veniva da San Rossore. Il treno si ferma a Civitavecchia. Amendola sale, parla con il generale Cittadini, l’aiutante del re, chiede di essere ricevuto dal sovrano. Amendola scende, e dopo qualche minuto ricompare Cittadini: Sua Maestà non intende riceverla».
Accanto al ritratto umano, di commovente intensità (vengono in mente le pagine che a Matteotti ha dedicato di recente Antonio Scurati nel suo magnifico M ), Gobetti sembra esaltare qualità tipiche di un uomo politico piuttosto da iscrivere alla schiera dei democratici tout court che non dei socialisti democratici: difensore del Parlamento, moderato e pragmatico nelle scelte economiche, tanto impavido nella lotta quanto distante da ogni estremismo parolaio. Si potrebbe convenire con l’acuta postfazione di questo volume, laddove Marco Scavino si domanda quanto il Matteotti social-moderato di Gobetti non sia una proiezione, decisamente politica, del giovane intellettuale torinese. La rivalutazione di un socialismo «compatibile» con la necessità della costruzione di un fronte più ampio di contrasto alla dittatura. È un dubbio legittimo, che, se confermato, non sminuirebbe certo la grandezza di Matteotti e dello stesso Gobetti: se quel progetto di unità antifascista si fosse realizzato, la storia d’Italia sarebbe stata profondamente diversa. Eppure, anni dopo, ancora Sandro Pertini, che al sacrificio di Matteotti non mancò mai di legare direttamente la propria vocazione di politico e combattente antifascista, avrà modo di ricordarne la figura con accenti singolarmente coincidenti con quelli di Gobetti: «borghese per estrazione sociale, Giacomo Matteotti aveva seguito il socialismo per vocazione, sentendo il richiamo potente che esercitava sul suo spirito generoso la lotta per un alto ideale di civiltà e di redenzione delle plebi agricole. Al servizio della causa socialista sono così posti la preparazione giuridica ed il fervore intellettuale che distinguono quest’uomo politico di formazione ideologica e concreta, interamente incentrata sui problemi del mondo del lavoro, del quale avverte di essere il mandatario più responsabile e conseguente (…) costante fu la sua esaltazione del Parlamento, cui si meditava di infliggere il colpo mortale (…) quando le tenebre della tremenda notte di schiavitù diventarono irrimediabilmente più fitte, Giacomo Matteotti si era sentito sempre più attratto dalla luce non ancora spenta del Parlamento, e in quel bagliore di tramonto ebbe a concludere la sua vita di combattente della libertà. Non fu un disperato volontario della morte, ma un lucido ed indomabile testimone delle ragioni della sopravvivenza del Parlamento e della libertà: la sua era la voce della razionalità politica sommersa, ma non distrutta, dall’odio irrazionale della massa urlante, da lui profondamente detestata, che aveva carpito nelle sue mani il destino del popolo italiano». E qui ancora ci si potrebbe chiedere in che misura proprio questo scritto di Gobetti abbia ex post influenzato lo stesso Pertini, determinando così la singolare convergenza di cui sopra. Ma sarebbe, ancora unavolta, domanda oziosa: a cent’anni dal ritrovamento dei suoi poveri resti nel bosco della Quartarella, il 10 agosto del 1924, siamo ancora qui a ricordare, con commozione, orgoglio e sdegno, l’intransigente antifascista, il socialista, e, come egli stesso ebbe a dire di sé, l’italiano Giacomo Matteotti. A ricordare, e a trarne esempio per non dimenticare che cosa fu, per il nostro Paese, la dittatura fascista.