il Giornale, 15 marzo 2024
Quando gli editori italiani cercavano idee, non copie
Un piccolo e oscuro libraio-editore di Bari andò a Napoli per incontrare Benedetto Croce, il più grande intellettuale del tempo, e convincerlo a collaborare con lui. Ci riuscì, adescandolo con la questione del Mezzogiorno: lui era Giovanni Laterza. Ulrico Hoepli a fine Ottocento inventò Wikipedia e i tutorial di YouTube, solo che si chiamavano manuali. Ai tempi del Minculpop Arnaldo Mondadori, pur di pubblicare i gialli stranieri, li sforbiciava senza pietà. La Sellerio nacque per pubblicare una guida sulla città di Palermo e Leonardo Sciascia ci collaborava gratis perché per lui «lavoro è solo fare quello che non ti piace». Oggi sotto le sue copertine di blu vellutato fioriscono proprio decine di gialli.
Ogni storia dell’editoria libraria è anche storia del costume. Lo conferma l’ottimo volume di Tommaso Munari L’Italia dei libri. L’editoria in dieci storie (Einaudi, pagg. 276, euro 18,50), presentato appunto come «Un’affascinante, insolita storia d’Italia attraverso le vicende di dieci illustri editori».
Nel dopoguerra, per dire, l’editoria cambiava perché cambiava il Paese. Il decollo dell’economia faceva volare idee che potevano essere applicate in concreto. I soldi c’erano, esisteva un mercato. Le proposte degli editori erano semi che attecchivano sul terreno ubertoso di una nazione che doveva pur essere educata.
Oggi il lavoro editoriale pare appiattito fra una visione impiegatizia della gestione redazionale e la violenza del marketing. Non importa che cos’è, basta che venda. Che faccia i numeri. A forza di voler fare i numeri, gli editori, soprattutto quelli grossi, i numeri finiscono per darli: uccidono le collane, il concetto stesso di un lavoro tessuto intorno a un pensiero preciso, se non a una visione del mondo. Corrono in tondo come galline senza testa sperando di scontrarsi col bestseller. O trapiantano dalla tv e dal web gente che nella vita fa tutt’altro che scrivere, basta che goda di un alto numero di seguaci. Il concetto di identità va a farsi benedire. L’editoria attuale è lo specchio del cervello collettivo: una poltiglia.
Leggendo Munari si capisce invece perché gli editori del secolo scorso sono stati fari di cultura. Innanzitutto, perché un’identità l’avevano, eccome.
Nel 1962, la Adelphi nacque da alcuni fuoriusciti da Einaudi, dove le loro proposte non venivano accolte, aprivano un ufficetto di due stanze a Milano. Luciano Foà, rischiando di suo, affiancato da Roberto Bazlen e Sergio Solmi, con Giorgio Colli puntò sull’impresa gigantesca della riedizione filologicamente corretta dell’opera omnia di Friedrich Nietzsche, il filosofo che tutti schifavano perché, male interpretato, era associato all’insorgere delle dittature in Europa. D’altronde i moralisti abbondavano già allora. Michele Ranchetti accusava la Feltrinelli di indulgere in «porcherie sessuali» anziché promuovere i «valori culturali», riferendosi ai Tropici di Henry Miller, ai Sotterranei di Jack Kerouac, all’Arialda di Giovanni Testori. La Feltrinelli del fondatore Giangiacomo, oltre che una fucina di proposte sembrava il covo di un terrorista, almeno stando a questa ricostruzione. Bombardava il mercato con volumi economici, nell’intento di avvicinare ai libri anche i meno abbienti. E c’era bisogno di vendere molto, a costo di creare scandali e casi. Il che riusciva benissimo, in un tempo e in un ambito dove il senso del pudore era soffocante.
Troviamo citato, a proposito, Valerio Riva, stretto collaboratore di Feltrinelli e sostenitore della pubblicazione de Il dottor Zivago di Boris Pasternak. Libro vituperato dal Pci, e sul quale pendeva il diktat della rimozione. Altri casi esplosivi furono Il Gattopardo, opera postuma dello sconosciuto esordiente Giuseppe Tomasi di Lampedusa (chi scrive parla per esperienza personale, avendo avuto Riva come mentore un quarto di secolo fa, e avendo conosciuto il suo modo di lavorare. Spregiudicato, divertentissimo). Andarono, lui e Feltrinelli, alla corte di Fidel Castro, da cui ottennero un contratto per un’autobiografia, mai onorato dal líder maximo, che non restituì l’anticipo. In compenso il dittatore procurò loro il Diario in Bolivia del Che, altro bestseller. Nelle parallele «Edizioni della Libreria» uscivano i titoli più spericolati. E Feltrinelli arrivò anche a stampare il Piccolo manuale di guerriglia urbana di Carlos Marighella, un utile strumento didattico per Brigate Rosse & Company.
Quell’editoria aspirava, oltre che a vendere copie, a cambiare la testa degli italiani. Forse anche, velleitariamente, a disciplinarne il pensiero. Operazione che oggi sappiamo impossibile, perlomeno col mezzo della lettura.
Quanto a Einaudi, essendone ospite, Munari non può che parlarne bene. Il carattere notoriamente autoritario e algido di Giulio Einaudi appare qui stemperato dalla raccomandazione a Leone Ginzburg di «rispetto per l’ignoranza» del lettore-tipo, al quale il testo doveva esser presentato con parole semplici, non con elucubrazioni intellettuali.
Laddove oggi l’ignoranza conviene assecondarla, meglio ancora: coltivarla.