il Giornale, 15 marzo 2024
Carceri troppo piene e senza redenzione Solo 2.400 detenuti hanno un lavoro vero
In Italia il 68,7 per cento di chi esce di galera torna a delinquere. Questo è il dato ufficiale (fonte Cnel), calcolato negli anni su 18.654 detenuti. Quello reale supera il 90, perché di molti reati non si scopre il colpevole. La recidiva scende però al 2 per cento fra i detenuti che in carcere hanno vissuto un’esperienza di lavoro e che conservano il posto una volta scontata la pena.
Ora, immaginate la giornata tipo del detenuto che non lavora. Che marcisce in gattabuia, come molti gli augurano. Dispone di due ore d’aria al giorno. Per le restanti ventidue è chiuso in cella, anche quando mangia: le tavolate con i detenuti sono roba da film americani, non da prigioni italiane. Sta spesso in pochi metri quadrati sovraffollati e sporchi. Non vede i propri familiari se non in parlatoio con i divisori in vetro, e poche ore al mese. Così ridotto, si sente più vittima che colpevole. Non elabora il male commesso. Pensa: «Perché dovrei rispettare la legge se lo Stato non la rispetta con me?». Accumula rancore e risentimento. Quando esce è incattivito e disoccupato perché nessuno si fida a prenderselo in azienda. Il passo verso il ritorno alla delinquenza è brevissimo e quasi sempre inevitabile.
Ora invece immaginate la giornata tipo del detenuto che lavora. Parliamo di lavoro vero. Cioè: non quei lavoretti passatempo tipo il fare le pulizie per conto dell’amministrazione penitenziaria o partecipare a laboratori che nascono e muoiono in carcere, senza offrire una prospettiva. Parliamo di detenuti assunti in regola da aziende che hanno portato i propri reparti all’interno del carcere. Questo detenuto è così occupato per otto ore al giorno. Percepisce uno stipendio regolare sul quale paga le tasse. Contribuisce a vitto e alloggio in carcere. Manda qualche soldo alla famiglia. Si sente utile, gratificato. Quando esce, conserva il posto nella stessa azienda che lo ha fatto lavorare in carcere e, nel 98 per cento dei casi, non delinque più.
Quale delle due soluzioni è migliore non solo per il detenuto, ma anche per noi che siamo fuori? Che siamo vittime di mini e maxi criminalità? «Vuoi più sicurezza? La strada è quella del recupero», dice Nicola Boscoletto, presidente della Cooperativa Giotto che nel carcere di Padova dà lavoro a un centinaio di detenuti.
E però, oggi in Italia (dati del Ministero aggiornati al 29 febbraio), a fronte di una capienza regolamentare complessiva di 51.187 detenuti, nelle 189 carceri italiane sono rinchiuse 60.924 persone, di cui 2.611 donne, 19.035 stranieri, 1.288 in semilibertà. Bene: sapete quanti di questi 60.924 hanno un lavoro? In tutta Italia, circa 700 all’interno, più 1.700 in semilibertà. Insomma 2.400 in totale.
Andiamo avanti.
Nel 2022 i suicidi in carcere sono stati 84. Nel 2023, 69. Nei primi due mesi di quest’anno, già 21.
Prendiamo Verona. Dal primo gennaio 2024 si sono tolti la vita già in cinque. Per dodici anni, all’interno del carcere ci sono state due aziende. Nel marzo dell’anno scorso il permesso è stato revocato: alle aziende è stata contestata qualche irregolarità amministrativa: «E d’accordo», dice Boscoletto, «ma non si poteva far sì che quelle aziende si mettessero in regola? Perché buttare il bambino con l’acqua sporca?». Dall’oggi al domani, 150 detenuti sono dovuti tornare in cella senza più un lavoro. C’entra qualcosa con i suicidi? Forse no, però...
Sul fatto che in galera si debba lavorare, ormai da qualche tempo sono tutti d’accordo, destra sinistra e centro. Il protocollo Cartabia-Colao prevedeva l’inserimento al lavoro per diecimila detenuti, con diverse aziende. Solo nel settore della fibra ottica erano previste 1.553 assunzioni. Dopo un anno e mezzo, gli assunti sono tre. «Un conto è la poesia, un conto è la realtà», dice Boscoletto. C’è la burocrazia, ad esempio, che paralizza un mondo che evidentemente non vuole cambiare: «Da sette anni chiediamo cinquanta nuove persone da inserire al lavoro. Non ce le hanno mai fatte avere».
E cinquanta si troverebbero, anche se rispetto a qualche anno fa il lavoro è diventato più difficile pure per un altro motivo: la popolazione carceraria è cambiata. Drammaticamente. Ancora Boscoletto: «Il 90 per cento non dovrebbero essere detenuti: dovrebbero essere curati. Sono in gran parte persone plurisvantaggiate, con dipendenze da droga, alcol, gioco; quasi tutti con problemi psicologici e spesso psichiatrici. Poi ci sono i disperati arrivati con i barconi. Oggi il carcere è diventato una discarica dell’indifferenziata». Come fa gente così a lavorare? Ci vorrebbero comunità in cui si cura e poi si insegna il mestiere: ma sono poche, ed esistono solo grazie a persone di buona volontà».
C’è poi il tema dell’affettività. O meglio, chiamiamo le cose con il proprio nome: la possibilità per un detenuto di ricevere riservatamente la propria moglie o compagna, anche per avere rapporti sessuali. È un’idea che manda in bestia i teorici del «bisognerebbe buttare via la chiave, ci manca solo che scopino». Ma questi incontri riservati sono ammessi in quasi tutto il mondo. Anche nella Russia di Putin.
Il 10 febbraio scorso la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’articolo 18 dell’ordinamento penitenziario, che impone il controllo visivo nei colloqui fra i carcerati e i loro familiari. I giudici hanno definito l’attuale situazione una desertificazione affettiva, e in assenza di una legge hanno imposto all’amministrazione penitenziaria di creare subito, perché la sentenza è immediatamente esecutiva, le condizioni per questi incontri riservati. Il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ha reagito come si reagisce sempre in Italia: annunciando l’apertura di un tavolo di lavoro. Il che vuol dire rimandare tutto alle calende greche. Anche gran parte della polizia penitenziaria è insorta: «Non vogliamo fare i guardoni di Stato», hanno scritto alcuni sui social.
«Ma al contrario, la Corte dice proprio che è incostituzionale il controllo visivo. Basta controllare chi entra, sia all’entrata che all’uscita», dice Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia e direttrice del periodico Ristretti Orizzonti: «Anche la mancanza di sessualità contribuisce a incattivire chi sta dentro».
Storceranno il naso in molti. «Ma se non lo capiscono per spirito cristiano e umanitario, lo capiscano almeno per un tornaconto economico e di sicurezza, perché tutti i dati statistici documentano che la punizione, il non recupero, genera una spirale negativa», chiosa Boscoletto.
E va ricordato a tutti che la pena non è la punizione: la pena, perché questo prevede la legge, è la privazione della libertà. Quel che si aggiunge fa male a chi sta dentro e farà male a chi sta fuori.