Corriere della Sera, 15 marzo 2024
Disturbi del cibo: l’allarme c’è ma l’Italia non vuol vedere
L’ossessione comincia la mattina appena svegli, quando bisogna trovare un modo di sfuggire alla colazione, al pranzo, alla cena. E poi dura l’intera giornata, quando si deve giustificare il rifiuto di una caramella, un pezzetto di pizza, un aperitivo. Oppure quando si deve trovare il modo di nascondersi per abbuffarsi fino a scoppiare. Anche se lavori, studi, stai chiuso in una stanza o in mezzo alle persone, il pensiero è fisso. Modifica le abitudini, le priorità, il rapporto con gli altri.
A noressia, bulimia, binge eating, vigoressia: quando si ha un disturbo alimentare si tende a isolarsi o comunque ad evitare il confronto diretto con chi vorrebbe aiutarti a uscirne. L’ho provato, lo so.
È come un gorgo che avviluppa e alla fine travolge non soltanto chi ne soffre ma anche i genitori, i fratelli, le persone che ti vogliono bene. Ci sono varie fasi. Generalmente all’inizio si tende a rifiutare anche solo l’idea che possa esserci un problema. Il malato nega, i familiari negano o comunque tendono a minimizzare. Quando arriva la fase della consapevolezza le reazioni invece sono diverse, è la parte più difficile da gestire. Perché ognuno ha, o crede di avere, una possibile soluzione ma basta poco a comprendere che si tratta di un’illusione. E allora ci si sente inadeguati, poi scattano i sensi di colpa, fino a quando si comprende che senza l’aiuto degli specialisti non si può guarire. Ed è proprio in questo momento che arriva davvero il problema. Perché serve lo psicologo o, talvolta, lo psichiatra. Serve il nutrizionista. Serve un medico che possa curare le conseguenze, spesso gravi, provocate dalla malattia. Servono centri di cura convenzionati con il servizio sanitario nazionale. Ma in Italia tutto questo non c’è.
Il quadro è chiaro e per metterlo ulteriormente a fuoco si deve partire da un dato oggettivo: si chiama disturbo, ma è una malattia vera. Non bisogna avere paura di dirlo. Soltanto se si è consapevoli della gravità, si comprende perché la risposta finora fornita dal nostro Paese non è adeguata a fronteggiare l’emergenza. Emergenza sì, anche questo non bisogna avere paura di dirlo. Lo dimostrano i numeri. Lo spiega bene – in queste ore di manifestazioni del fiocchetto lilla – la dottoressa Laura Della Ragione, direttrice dei centri pubblici che si trovano in Umbria – e certamente tra le maggiori esperte nella cura e nell’assistenza. «Le persone malate sono ormai oltre 3 milioni, nel 2019 i nuovi casi erano 680.569 e sono cresciute fino ad arrivare, nel 2023, a quota 1.680.456. Soltanto nell’ultimo anno le vittime sono state 3.780. Tra gli adolescenti è seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali».
Le strutture sono 135, di cui 115 pubbliche e 20 accreditate con il servizio sanitario nazionale. Poche, troppo poche. I posti disponibili sono poco più di 900. Pochissimi. In alcune regioni non c’è nemmeno un centro. I malati e le loro famiglie sono costretti sempre più spesso a trasferirsi pur di avere assistenza, perché le cure private sono costosissime e soprattutto possono durare anni. Viaggi della speranza che rendono bene il senso di solitudine in cui si trova chi cade nel gorgo e fatica a uscirne. Finora nessun governo si è davvero occupato di questo. Qualsiasi fossero le alleanze e il colore politico di chi decideva le strategie in materia di salute pubblica, nessuno ha mai inserito questo argomento tra le priorità da affrontare. Il momento di farlo è arrivato. Tutti insieme. Si devono stanziare fondi per aprire strutture, impiegare personale specializzato, convenzionare chi già se ne occupa. Ma bisogna farlo subito. Perché c’è in gioco il futuro dei ragazzi. E dunque in gioco c’è il futuro del nostro Paese.