il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2024
Le nostre grinfie sull’Africa nera
Nella ormai famosa intervista alla Tv svizzera, Papa Bergoglio ha detto in termini laici e non religiosi, che negoziare non è peccato.
È curioso, bizzarro, ma indicativo, che la presa di posizione più netta sull’attuale crisi russo-ucraina sia stata presa non da un politico ma da un capo spirituale. Naturalmente il Santo Padre è stato sommerso dalle critiche, politiche e mediatiche, del cosiddetto mondo occidentale.
Nell’ultimo articolo dicevo che noi dovremmo imparare dal diritto latino. Ma dovremmo imparare qualcosa anche da quelle che sprezzantemente chiamiamo “culture inferiori”, in particolare da quella africana.
L’intera storia dell’Africa Nera, naturalmente prima che noi ne ibridassimo e distruggessimo la cultura, le tradizioni, l’economia, non col colonialismo classico, che era in un certo senso ‘romano’ (noi occupavamo e depredavamo, ma gli indigeni continuassero pure a vivere secondo le loro tradizioni e costumi) ma col più recente e devastante colonialismo economico, è caratterizzata dal negoziato. Scrive l’antropologo John Reader (Africa, 2001) parlando del Delta del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici il delta interno del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche”. E questo vale, sempre per Reader, per tutta l’Africa Nera. Ma com’è possibile, dirà il lettore, se attualmente l’Africa è attraversata da conflitti particolarmente feroci come quello in Sudan, mentre è ancora nella memoria di tutti il dramma del conflitto tra Tutsi e Hutu? Ma questo è lo stato delle cose “attualmente”, cioè più o meno dell’ultimo mezzo secolo, in cui è stata distrutta la comunità tribale. In questa non comandava il re, che era un simbolo, il meno libero della tribù, un po’ come il re o la regina d’Inghilterra, ma le decisioni venivano prese dalla collettività. È chiaro che se tu alla realtà tribale sostituisci le strutture di uno Stato moderno questo avrà bisogno di eserciti e di polizia con cui schiacciare i sudditi, non tanto diversamente peraltro da quanto avviene nelle moderne democrazie occidentali.
Ora, per non farci mancar nulla, l’Italia con l’appoggio esplicito o implicito della cosiddetta comunità internazionale (Ursula von der Leyen, Ocse, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale) ha messo in piedi il cosiddetto “Piano Mattei”. È evidente che la Comunità internazionale agisce sotto l’impulso di un senso di colpa: dopo aver distrutto l’Africa Nera abbiamo il dovere morale di ricostruirla, soprattutto economicamente. A parte il fatto che per questo Piano non abbiamo consultato i diretti interessati, cioè gli africani, come ha lamentato Moussa Faki, il presidente dell’Unione Africana, l’Inferno, come si sa, è lastricato di buone intenzioni, anche ammesso e nient’affatto concesso che il Piano Mattei abbia buone intenzioni. Giorgia Meloni ha affermato che il Piano Mattei non ha “un approccio predatorio”. Excusatio non petita, accusatio manifesta. Il sottosuolo africano possiede il 30% delle risorse naturali e minerarie necessarie alla transizione energetica globale. E non è certamente un caso che al Piano Mattei sia molto interessata l’Eni, nota confraternita di anime pie (nel 2006 furono rapiti due tecnici Eni nel Delta del Niger perché lo sfruttamento del petrolio andava a tutto vantaggio della società italiana e non al popolo nigeriano. I capi del Mend, Movimento per la liberazione del Delta del Niger, dissero: “Noi non siamo criminali, ma voi ci costringete a esserlo”).
Ma l’Africa Nera non è interessante solo per le sue risorse, ma per il numero dei suoi abitanti, circa 700 milioni escludendo il Sudafrica che fa storia a sé. Insomma si vuol fare degli africani dei forti consumatori.
Consumatori di che non è molto chiaro visto che, come dicono tutti, l’Africa è alla fame. Lo è oggi, non lo era nell’immediato ieri. Ai primi del Novecento, l’Africa era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%) nel 1961. Ma da quando ha cominciato a essere aggredita dall’integrazione economica – prima era considerata un mercato del tutto marginale e poco interessante – le cose sono precipitate. L’autosufficienza è scesa all’89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere che è successo dopo non sono necessarie statistiche: basta guardare le migrazioni dei subsahariani che, passando dalla pericolosissima Libia di oggi (quando c’era Gheddafi la Libia era un Paese ordinato e nient’affatto pericoloso) e per la Tunisia, dove sono odiati dalla popolazione locale che tende a ricacciarli in mare.
Insomma in Africa Nera non è più questione di povertà ma di fame, della brutale fame. E non sarà certo il blocco navale progettato da Salvini a fermare questa gente.
Ritorniamo ai problemi, ai drammi, dell’agricoltura africana. “In un’economia mondiale integrata, di mercato e monetaria, il cibo non va dove ce n’è bisogno, va dove c’è il denaro per acquistarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato all’alimentazione degli animali dei Paesi ricchi. I poveri del Terzo mondo sono costretti a vendere alle bestie occidentali il cibo che potrebbe sfamarli” (Il vizio oscuro dell’Occidente, 2002). È la legge del mercato e del denaro.
L’interesse per l’Africa Nera non è dettato solo da ragioni economiche rapinatorie ma da interessi geopolitici. Si scrive che in Africa sono presenti i russi attraverso la Wagner. I russi non sono mai stati presenti in Africa, non hanno mai avuto interessi coloniali di tipo occidentale (alla Russia interessa ciò che accade nel proprio territorio e in quelli vicini, cioè territori europei o parzialmente asiatici) così come non fu né coloniale né neocoloniale il nazismo, Namibia a parte che, credo non a caso, è oggi il Paese più ordinato e tranquillo dell’Africa Nera. La fantomatica Wagner, che si dice che esista ma nessuno sa dire con precisione dove stia, è un pretesto per addebitare a Putin ciò che di Putin non è. Si dice che la Wagner sia presente in Mali. Le cose non stanno proprio così. Il Mali è diviso in due parti, il Mali del Sud sotto la Francia, non nei modi neocoloniali ma nei modi di un colonialismo in senso stretto scomparso da tempo (da quelle parti si batte una moneta francese, il Franco Cfa) e un Mali del Nord abitato da animisti, tuareg, islamici non radicali. Qualche anno fa alla Francia è venuta la bramosia di occupare anche il Mali del Nord.
Conseguenze: i tuareg si sono salvati perché nomadi, gli animisti sono stati spazzati via e gli islamici, fino ad allora quieti, sono diventati Isis.
All’epoca di un summit organizzato dal primo G7, i sette Paesi africani più poveri con alla testa il Benin organizzarono un contro-summit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Invece di fare le anime belle, con Piani Mattei e simili, dovremmo seguire questa volontà autoctona. “Oh che partenza amara, Meloni cara, Meloni cara”.