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 2024  marzo 14 Giovedì calendario

Il rapporto tra parola e immagine. Intervista con Lina Bolzoni

La civiltà dell’immagine è insieme sublime e terrificante.Ci fa apprezzare tutto quanto la sua storia ha prodotto e ci provoca un senso di profondo turbamento per tutto quello che produrrà. Forse è questa la ragione per cui stiamo progressivamente diventando“ciechi”. Non vediamo più ciò che ci sembra di osservare.Ci sfugge il dettaglio, ma anche l’insieme. Sono macchie di Rorschach quelle che si imprimono sulla nostra retina. Ho pensato che una conversazione tra il passato e il futuro dell’immagine si potesse affrontare più che con un semiologo o un linguista con una signora, storica della letteratura, che da tutta la vita studia il rapporto tra la parola e l’immagine. Lina Bolzoni è una donna gradevolissima e sapiente, senza che l’accumulo delle conoscenze le impedisca di essere semplice e al tempo stesso efficace. Lina ha scritto libri eruditi e godibili, tra cui:La stanza della memoria, Il cuore di cristallo, La rete delle immagini, Una meravigliosa solitudine, tradotti in tutto il mondo.Che cosa proviamo davanti a un’immagine?«Dipende di quali immagini parliamo e del contesto. Ma soprattutto a quale epoca ci si riferisce. Lasciamo stare gli specialisti. Cosa provava la gente comune, il popolo, nel Tre o Quattrocento o magari nel Seicento, mentreaffollava le chiese in religioso silenzio? Probabilmente incanto, terrore, devozione, meraviglia. Guardava ed ascoltava. Avvertiva la parola del predicatore farsi immagine e l’immagine degli affreschi o dipinti circostanti rivivere nel discorso».Erano cuori semplici.«Nello spazio del sacro la fede chiedeva un segno all’immagine, una prova che la parola predicata aveva il compito di rafforzare. Nel ’900 muta radicalmente il paesaggio: l’immagine dilaga nella fotografia, nel cinema, ma soprattutto nella pubblicità che ne rappresenta la sintesi. L’ultima frontiera sono internet, il cellulare, i social media territori ancora da esplorare».C’è continuità o rottura tra queste epoche?«Nonostante le enormi differenze si conferma l’aspetto seduttivo che il nesso parola-immagine produce. Si tratta di una relazione sofisticata che richiede tecniche comunicative raffinate. Da questo punto di vista una predicazione trecentesca non è poi così diversa da un messaggio pubblicitario ben costruito».Cosa li accomuna?«Le tecniche “narrative” in entrambi i casi mirano ad emozionare e condizionare il popolo o il pubblico. Si crea in questo modo una sorta di “teatro della memoria” sul quale “recitano” immagini e parole. Un maestro dell’oratoria incantatrice fu Bernardino da Siena, predicatore inimitabile capace di suscitare, controllare e guidare le passioni dei fedeli».Non è poi così diverso dai modi demagogici dell’odierna politica.«Sono cambiati i contesti culturali in cui la paura e la speranza fanno leva sulle emozioni. Ma l’impianto retorico resta immutato».La sua passione per le immagini da dove le deriva?Forse dai primi libri letti: le figure che accompagnavano le fiabe. Sono stata fin da piccola una lettrice accanita, anche se vivevo in una casa dove non c’erano libri. Scoprii che a Soresina, il paese dove sono nata, il sindaco aveva fatto installare una piccola biblioteca. È in quel luogo primario che mi sono formata. Mio padre vendeva stoffe nelle cascine. D’estate a volte lo accompagnavo. Ed è probabile che se non avessi sviluppato questo amore per la lettura avrei ripercorso le sue orme».Che ricordo ha di quel periodo?«Di un mondo che non c’è più. Mio nonno mi portava con la bicicletta in campagna. Passavo le giornate a conoscere e ad amare quel mondo di contadini e di paesaggi quieti e belli. E poi ricordo il tempo trascorso in biblioteca. C’era una grande sala con un imponente affresco cinquecentesco. Davanti al quale mi piaceva sostare. Che fai? Non puoi stare qui tutto il tempo a guardare con il naso all’insù, questo è un luogo dove si legge, mi rimproverava il bibliotecario burbero. Seppi che scriveva poesie che nessuno leggeva. Mi trattava con una certa diffidenza. Poi un giorno si sciolse. Cominciò a consigliarmi alcuni classici: le strenne della Utet e poi la collana della Medusa. Ebbe inizio così il mio apprendistato».Che culminò alla Normale di Pisa.«Allora non sapevo bene cosa fosse. Volevo soltanto essere indipendente. Andare via da Soresina. Ma come?Non c’erano soldi in casa e decisi di fare il concorso dove si potesse studiare gratis. Provai quasi contemporaneamente con il Collegio Ghisleri di Pavia e la Normale di Pisa. Vinsi entrambi. Ricordo che a Pisa mi accompagnò mia madre. Era certa che non sarei passata.Mi disse: Lina facciamoci un bel giro tra i monumenti e poi torniamocene a casa. Tanto non è aria che ti prendano».E invece?«Feci un brillante orale con Mario Fubini e passai l’ammissione. Entrai in Normale nel ’68. Un altro mondo.Mi piaceva il movimento studentesco. All’inizio portò una ventata di novità. Soltanto dopo, quando vidi crescere il dogmatismo e la violenza decisi di concentrarmi sulle lezioni di filosofia di Nicola Badaloni, quelle di storia con Armando Saitta, e poi Eugenio Garin che fu per me importante. C’era anche l’affascinante Francesco Orlando che insegnava teoria della letteratura».In cosa voleva specializzarsi?«All’inizio pensavo in archeologia e lettere classiche. Non era la mia strada, perciò sterzai sull’età dell’umanesimo. La prima ricerca seria fu sulle poetiche del Rinascimento. Scoprii allora il mondo delle immagini e iniziai a interessarmi all’arte della memoria. Vi giunsi attraverso la tradizione warburghiana che aveva attecchito in un gruppo di giovani studiosi che comprendeva Paola Barocchi, Salvatore Settis, Enrico Castelnuovo. Erano storici dell’arte interessati al dialogo con le altre discipline.Così come c’erano storici di formazione, come Carlo Ginzburg, aperti all’arte.«Credo sia stato Delio Cantimori all’inizio degli anni Sessanta a fargli scoprire il prezioso lavoro dell’Istituto Warburg. Con Carlo ci siamo frequentati a Los Angeles e al Getty Research Institute. Gli americani erano molto interessati alle nostre ricerche sulle immagini e sul teatro della memoria».Prima di parlarmi di questa esperienza vorrei che accennasse al teatro della politica. So di una sua esperienza diretta nel Pci.«In quegli anni il Pci rappresentava la difesa di certi ideali, provando anche a rinnovarli, senza l’uso della violenza praticata dall’estremismo. Cominciai così a fare politica attiva a Pisa e poi nel consiglio regionale toscano».In che periodo esattamente?«Era ancora segretario Enrico Berlinguer, quindi agli inizi degli anni ottanta. Capii presto che al suo fascino indiscusso non corrispondeva pienamente il respiro compiuto di una strategia. Ma non fu tanto questo a deludermi quanto la sensazione che quella libertà individuale, che ritenevo irrinunciabile, fosse messa in discussione dal piccolo cabotaggio della politica, dai personalismi, dalle eccessive ambizioni e non ultimo dal modo in cui gli intellettuali erano guardati».Come si sentiva guardata?«Diciamo pure “usata”. Per gli intellettuali all’interno del partito non c’è quasi mai stato un vero spazio di azione.Ho preferito concentrarmi interamente sulle mie competenze. Ripresi a studiare in particolare la tradizione degli emblemi e il teatro della memoria in Giulio Camillo».Si rituffò in pieno Rinascimento.«Fu in quel periodo che iniziai a pormi i problemi che il nesso tra parola e immagine suscitava in alcuni grandi capolavori della letteratura, come ad esempio L’Orlando furioso.L’uso dell’immagine non era ornamentale. Era chiaro che a seconda di come veniva illustrato il capolavoro dell’Ariosto, si stabiliva un diverso modo dileggere il testo. Così nelle prime edizioni illustrate dell’Orlando vediamo scene di guerra e di duelli, mentre si trascurano quelle dove sono presenti le donne e gli amori, che compariranno invece in età romantica.L’illustrazione non serve solo ad abbellire un testo, è anche una guida per il lettore».Quasi un graphic novel.«Il paragone è suggestivo. In fondo è con la nascita del libro a stampa che il rapporto tra parola e immagine si diffonde tra le nuove categorie di lettori».A questo proposito lei ha parlato di lettura come esperienza solitaria. Cosa significa?«Quello che ho tentato di fare inUna meravigliosa solitudine, l’arte di leggere nell’Europa moderna (uscito da Harvard in traduzione inglese e in via di stampa in Giappone) è ripercorrere la tradizione antica della lettura, soprattutto Petrarca, Tasso e Montaigne, come momento fortemente individuale, dove attraverso l’incontro tra la lettura solitaria e la scrittura dell’altro si riconosce qualcosa di sé».È un’idea presente anche in Proust.«La solitudine rivelatrice del proprio mondo, di cui parla Proust, è appunto il piacere di condividere le storie che i personaggi di un romanzo creano. Il gesto solitario del leggere è una pratica lenta che richiede tempo. Pratica che oggi andrebbe un po’ difesa».Non ritiene che non ci siano più le condizioni?«Con la radicale trasformazione del paesaggio dellacomunicazione, anche il nesso parola e immagine si è molto indebolito. Come sempre capita quando nuovi strumenti di comunicazione si impongono, insorge una fase di paura e disorientamento».Le conseguenze?«Una abbastanza evidente è che essendo aumentata la velocità del comunicare è diminuita la durata della nostra attenzione. C’è allora una sfida nuova da affrontare, perché ne va del nostro futuro benessere mentale oltreché fisico. Ci sono ricerche delle neuroscienze che sostengono che con gli attuali mezzi di comunicazione c’è il rischio che venga meno la dimensione di empatia che la lettura lenta suscita. Il consumo rapido ed esteso delle immagini ha messo in crisi il rapporto riflessivo con la parola».I suoi studi sulla parola e l’immagine hanno fornito un importante contributo alla storia della letteratura. Che giudizio dà di quella italiana?«Indubbiamente conta molto meno che in passato quando, nelle maggiori corti di Europa, si impose una linea petrarchista. Fu Bembo a codificare il canone letterario invitando i suoi contemporanei a saltare un secolo per tornare a Petrarca. Il petrarchismo divenne una specie di lingua europea.La grande regina Elisabetta fece tradurre L’Orlando furioso in inglese; Marino pubblicò L’Adone in Francia e questo nonostante la realtà politica fosseda noi fortemente frantumata».L’interesse era solo per la lingua italiana?«Anche per le idee. Machiavelli, sebbene spesso demonizzato, è conosciutissimo in Europa. Ma la riscoperta della cultura italiana avviene anche grazie ai nostri esuli che spinti dalla Controriforma furono costretti a emigrare. Basti pensare ai rapporti di Giovanni Florio con l’Inghilterra o a Giordano Bruno che pubblica a Londra i suoiDialoghi. Questo stato di grazia però non durerà a lungo».Perché?«Il petrarchismo andava bene per la poesia amorosa.Meno per la società civile. Il codice letterario imponeva una netta separazione tra la lingua parlata e quella letteraria. È una distinzione che peserà lungo tutta la nostra storia letteraria, almeno fino all’Ottocento. Quel modello formalista perciò allontana la letteratura dalla vita e finirà con l’insterilire il contributo intellettuale».Tutta colpa di Petrarca?«Ovviamente no. La sua grandezza non si discute. Al tempo stesso egli inaugura quell’enorme costruzione dell’Io che lo porta, oggi diremmo, a un’incredibile narrazione di sé. Si inventa una sua biografia. Se si pensa a Dante del quale non c’è nulla, tranne forse una firma, Petrarca è una miniera di indizi e prove su di sé. Non a caso, il suo narcisismo ha funzionato da modello per tantissimi letterati. Ma questa è un’altra storia».