Il Post, 14 marzo 2024
L’uomo che non dimenticava nulla
Solomon Shereshevsky, noto anche come Š, è stato spesso descritto come “l’uomo che non riusciva a dimenticare”: ricordava in maniera estremamente precisa dettagli della sua vita e delle sue esperienze, non solo dopo pochi minuti o dopo pochi giorni, ma anche a decenni di distanza. Questa sua eccezionale abilità venne descritta nella monografia Una memoria prodigiosa (1968) del medico sovietico Alexander Luria (o Lurija), considerato uno dei capostipiti della neuropsicologia, che lo sottopose a vari test e lo studiò in un arco di tempo di circa trent’anni: secondo Luria le doti di Š erano legate non tanto a una memoria straordinaria o illimitata, quanto alle sue capacità di immaginazione e astrazione.
La storia di Shereshevsky è stata raccontata tra gli altri sul New Yorker dal giornalista Reed Johnson, che ha fatto molte ricerche sul suo conto, e ha ispirato il film del 2000 del regista italiano Paolo Rosa Il mnemonista.
Nato nel 1886 a nord-ovest di Mosca da una famiglia ebrea, Shereshevsky (o Seresevsky) era un giornalista appassionato di musica che si occupava soprattutto di brevi articoli satirici. Un giorno, quando il direttore del giornale per cui lavorava gli chiese come mai non prendeva mai appunti durante le riunioni del mattino, lui gli rispose che non ne aveva bisogno: quindi ripeté parola per parola tutte le indicazioni per la giornata di lavoro che erano state dette a voce. Il direttore, molto colpito, lo mandò a fare un test della memoria, racconta Johnson: fu così che Shereshevsky incontrò Luria, al tempo un giovane ricercatore di psicologia in un’università locale.
Nel suo studio Luria scrisse che Shereshevsky riusciva a memorizzare rapidamente poesie, formule matematiche complicate, parole inventate e anche testi in lingue che non conosceva, tra cui l’inizio della Divina Commedia. A quindici anni di distanza ricordava esattamente gli abiti che indossava Luria il giorno in cui avevano svolto un certo test, così come i numeri e le parole che gli era stato chiesto di memorizzare durante il primo incontro. «Dovetti semplicemente ammettere che la capacità della sua memoria non aveva limiti precisi», scrisse lo psicologo nella monografia.
Attraverso i test svolti nel tempo, Luria indagò i meccanismi mentali che influenzavano la personalità e la capacità di apprendimento di Shereshevsky, concludendo che era in grado di ricordare le cose grazie alle immagini mentali che se ne faceva. In particolare, a suo dire, “soffriva” di sinestesia, il fenomeno percettivo per cui lo stimolo di un senso provoca una reazione anche in altri (e che indica anche la figura retorica con cui si accostano termini che evocano sensazioni relative a diversi sensi, come “voce ruvida”, o “luce calda”). Per lui ogni ricordo aveva insomma l’effetto di evocare gusti, colori, suoni, percezioni tattili. Più vividi erano questi collegamenti e queste rappresentazioni mentali, più radicato era il ricordo di una certa sequenza di numeri o parole nella sua memoria.
Per fare qualche esempio concreto, Luria racconta che Shereshevsky riusciva ad alzare la temperatura della mano destra di 2 gradi e ad abbassare quella della sinistra di 1,5 allo stesso tempo, semplicemente immaginando di mettere la prima su una stufa e l’altra su un blocco di ghiaccio. Riusciva ad aumentare o ad abbassare i propri battiti immaginando di dover correre dietro a un treno per non perderlo, oppure di essere addormentato. Ma soprattutto per tenere a mente una cosa adottava un metodo conosciuto come tecnica dei loci, che prevede di organizzare le informazioni in uno schema familiare e visualizzarle in uno spazio fisico immaginato. Shereshevsky per esempio raccontava di immaginare via Gor’kij, una delle vie principali di Mosca, oppure una strada del posto in cui era nato.
Le sequenze di parole o numeri nella sua testa diventavano insomma dei personaggi, a cui attribuiva un significato e una storia tutta loro, e che quindi ricordava grazie a una specie di “passeggiata mentale” da un punto all’altro.
Per Shereshevsky il suono di un campanello evocava «un oggetto piccolo e rotondo, qualcosa di ruvido come una corda, il sapore dell’acqua salata e qualcosa di bianco», scriveva Luria. Se il numero uno corrispondeva a «un uomo robusto dall’aspetto composto e la faccia allungata», il due era «una donna paffuta con un’acconciatura elaborata, vestita con un abito di velluto o seta con uno strascico». Fu così che riuscì a memorizzare dopo averlo sentito una sola volta anche il celebre incipit della Divina Commedia, «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: anche se era in una lingua che non conosceva, lo ricordava perfettamente anche a giorni di distanza, perché aveva attribuito a ciascuna parola un significato tutto suo. Nel libro di Luria lo spiegò lui stesso così:
Al centro dello studio di Luria ci fu pertanto il legame tra la memoria e l’immaginazione, che è un elemento indispensabile per capire il modo in cui ricordiamo. Grazie al modo in cui percepiva gli stimoli e li visualizzava nella sua mente, Shereshevsky non solo riusciva a memorizzare in maniera precisa cose che gli erano appena state dette, ma anche a risalire a informazioni molto dettagliate a molto tempo di distanza, e quindi di fatto a non dimenticarle. Secondo Luria comunque, Shereshevsky cominciò a usare la tecnica dei loci solo in un secondo momento e gli servì soltanto per rafforzare abilità che aveva già e che erano già straordinarie.
Come osservato di recente sulla rivista Psychology Today, oggi sappiamo che Shereshevsky mostrava tratti tipici dell’ipertimesia, spesso chiamata impropriamente “sindrome della super memoria”, una condizione in cui si riesce a ricordare con estrema precisione la gran parte degli episodi accaduti nella propria vita. Le persone con ipertimesia insomma ricordano anche in maniera non deliberata la gran parte degli eventi di cui hanno avuto esperienza diretta.
Johnson nota che Shereshevsky non ricordava proprio tutto in maniera perfetta: per farlo gli ci volevano uno sforzo consistente e soprattutto la sua fervida immaginazione. Suo nipote, Mikhail Reynberg, che Johnson riuscì a rintracciare e intervistò, raccontò che non cercava a tutti i costi di tenere a mente le cose, e non sempre se le ricordava: a un certo punto Shereshevsky aveva cominciato a metter in mostra le proprie doti in spettacoli pubblici, e stando a quanto ricorda Reynberg prima di esibirsi si esercitava per ore.
Nell’autobiografia che stava scrivendo prima di morire, nel 1958, Shereshevsky diceva che il fatto di associare parole a suoni, gusti o colori spesso lo faceva distrarre, con il risultato che azioni molto semplici come leggere il giornale a colazione lo mandavano in confusione. Le immagini che gli venivano in mente tendevano ad accumularsi e a generare a loro volta altre immagini, mandandolo in confusione e rendendogli impossibile concentrarsi. Sempre per il modo in cui era abituato a creare queste associazioni mentali, inoltre, per lui era difficile memorizzare parole che avevano un significato diverso da quello letterale, come quelle usate nelle metafore. A volte tendeva a confondere la realtà con l’immaginazione, oppure immaginava una versione di sé doppia: fenomeni che secondo Luria gli rendevano difficile comportarsi in maniera naturale nella vita adulta.
Tra le altre cose, Shereshevsky contestò il fatto che secondo Luria potesse soffrire di sinestesia. Scrisse di essersi offerto di fare altri test psicologici per provare che non soffriva di particolari condizioni mentali, ma non è chiaro se li fece mai, nota Johnson. Secondo il nipote questo suo modo di percepire la realtà alla lunga per lui fu frustrante: cominciò ad avere problemi di alcolismo e morì nel 1958 per complicazioni legate alla dipendenza, dice sempre Reynberg. Luria descrisse anche come Shereshevsky cercò di liberare la sua mente dai ricordi che non voleva avere, provando a scriverli su dei bigliettini: alla fine, vedendo che questa tecnica non funzionava, li bruciò.