Corriere della Sera, 14 marzo 2024
I trent’anni dell’Italia in tribunale
Per molti versi il libro di Goffredo Buccini La Repubblica sotto processo. Storia giudiziaria della politica italiana 1994-2023, in uscita domani per Laterza, è il seguito de Il tempo delle Mani pulite, pubblicato nel 2021 dallo stesso editore, in cui l’autore ha raccontato la propria esperienza di giovane cronista alla Procura di Milano. In realtà, La Repubblica sotto processo non è solo la cronaca di una penna esperta che utilizza una mole impressionante di fonti. In questo nuovo lavoro, Buccini ricostruisce trenta anni di storia attraverso il conflitto fra giudici e politici, che è uno dei fattori di crisi della nostra democrazia.
Facciamo qualche esempio e iniziamo dai magistrati, che fra il 1993 e il 2004 processarono Giulio Andreotti per associazione mafiosa. Buccini ricorda che il procuratore Gian Carlo Caselli e i suoi colleghi costruirono l’impianto accusatorio sulla base delle dichiarazioni dei pentiti, anche quando la loro credibilità appariva palesemente discutibile. Alla fine, i giudici assolsero l’ex presidente del Consiglio «a metà», ritenendo che fosse colluso con la mafia fino al 1980, ma che non fosse perseguibile, essendo decorsi i tempi della prescrizione. Da quel momento, Andreotti si sarebbe dissociato, arrivando a promuovere provvedimenti normativi per contrastare la criminalità mafiosa.
Da parte sua, Antonio Di Pietro non appare più lineare: dopo Mani pulite, ha corteggiato «qualsiasi politico gli facesse profferte per il futuro» e, senza alcuna coerenza, ha cercato pervicacemente la scalata verso il successo. Certo, un pubblico ministero che lascia la magistratura ha il diritto di fare e di dire ciò che vuole. Ma allora perché nel 2002 il capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, invitò tutti a «resistere, resistere, resistere come su un’irrinunciabile linea del Piave» contro le riforme proposte dal governo Berlusconi, mentre inaugurava l’anno giudiziario? Leggendo alcuni passaggi di questa lunga storia dovremmo dedurre che ha ragione chi tuona contro le toghe rosse o chi denuncia il delirio di onnipotenza dell’ordine giudiziario. In realtà, se volgiamo lo sguardo verso la classe politica, ci accorgiamo di come sia tutto decisamente più complicato.
Nel 2007 il fortunato volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, La casta (Rizzoli), documentò decenni di truffe: dagli aerei di Stato che volavano 37 ore al giorno per portare un parlamentare a una festa a Parigi, ai rimborsi elettorali 180 volte più alti delle spese sostenute; dalle comunità montane nate a 39 metri sul livello del mare, alle commissioni culturali che si chiedevano se Plutone fosse un pianeta. Diciassette anni dopo, possiamo criticare Stella e Rizzo perché hanno scritto un libro che ha favorito il diffondersi di un’antipolitica qualunquista? Effettivamente, sostiene Buccini, La casta fu solo il dito che indicò la luna, e cioè una «classe politica vergognosa» e «impresentabile», che dopo Mani pulite si era suicidata, perdendo credibilità e non riuscendo a rinnovare sé stessa.
Dall’inizio degli anni Duemila, abbiamo assistito all’ascesa di nuove formazioni, come il Movimento Cinque Stelle, «una setta digitale giustizialista, egemonizzata da un comico e tramutata poi in movimento di massa all’insegna dell’incompetenza». Abbiamo visto il perpetuarsi del conflitto fra magistrati e politici, il susseguirsi di indagini che hanno coinvolto personaggi autorevoli, fino all’inchiesta sull’amministrazione della città di Roma e della Regione Lazio. Nel 2015 la Procura della capitale ha mostrato l’esistenza di un’organizzazione criminale che, fra l’altro, si occupava della gestione dei centri di accoglienza per i migranti. Secondo i pubblici ministeri, destra e sinistra avrebbero preso parte ad un giro di affari mafioso. Dopo un percorso processuale molto complicato, la Cassazione ha dichiarato che nella capitale esistevano sì due organizzazioni criminali, quella di Salvatore Buzzi e quella di Massimo Carminati, ma ha negato che fossero associazioni mafiose. È una dinamica che si ripete: esiste un’indagine perché esiste un reato. Esiste un coinvolgimento dei partiti in una realtà corrotta, che si rivela meno grave di come rimbalza sui mass media. E, soprattutto, esistono il delirio di onnipotenza di alcuni magistrati e la miseria di alcuni politici perché, da tempo – nota Buccini – si è perso il senso della “pera di Luigi Einaudi”.
In una cena al Quirinale, con i collaboratori del Mondo, la rivista diretta da Mario Pannunzio, il presidente della Repubblica Luigi Einaudi voleva mangiare una pera, ma trovandola eccessivamente grande, e non volendo sprecarla, chiese agli astanti: «C’è qualcuno che vuole dividerla con me?». Gli invitati sorrisero ed Ennio Flaiano, alzando la mano come a scuola, disse: «Io, presidente». Alle sue spalle, il maggiordomo in livrea arrossì per la domanda poco protocollare e sparì dietro una tenda, dopo aver posato la metà della pera davanti a Flaiano. Dunque, mentre Einaudi nel 1951 non sprecava le pere, noi siamo stati governati da una classe dirigente che gestiva i soldi pubblici in modo improprio, con un debito schizzato alle stelle negli anni Ottanta, che ci ha esposti alla gravissima crisi dello spread nel 2011.
Dopo aver letto La Repubblica sotto processo potremmo chiederci se il trentennio 1994-2023 è rappresentativo di un percorso più lungo. È vero, storicamente, abbiamo un problema con il rispetto delle regole, con la corruzione, con il senso dello Stato. D’altra parte, non possiamo valutare i politici soltanto sulla base del loro rapporto con le procure. Uno dei più grandi statisti italiani, l’uomo a cui dobbiamo il decollo industriale e il suffragio universale maschile, Giovanni Giolitti, fu coinvolto nello scandalo della Banca romana nel 1893. Assolto dalle accuse, riprese la sua carriera politica, ma per tutta la vita venne tacciato di gestire il proprio potere con metodi clientelari. Alcide De Gasperi nel 1950 realizzò la riforma agraria, la più grande opera di redistribuzione della ricchezza mai effettuata in Italia, con un milione di ettari di terreni espropriati ai latifondisti e assegnati ai contadini. In quegli anni, la Democrazia cristiana governava saldamente l’Italia e nel farlo costruiva consenso, in vari modi. Poteva accadere che il deputato Tizio riuscisse a far assumere i suoi compaesani in un ministero o magari, nel decennio successivo, alla Rai. Il Partito comunista, che godeva dei finanziamenti illeciti provenienti dall’Unione Sovietica totalitaria, ha contribuito alla modernizzazione di questo Paese e ha consentito l’approvazione di leggi importanti che ad oggi costituiscono la struttura portante della democrazia italiana. Giudichiamo, allora, le classi dirigenti sulla base dei loro progetti, sulle scelte operate, sulla capacità di gestire i conflitti e di riformare la realtà che hanno di fronte.
In questo senso, la crisi del sistema non dipende soltanto dal dilagare della corruzione o dallo strapotere delle procure e il richiamo alla legalità non può essere il perno di una visione politica perché, semmai, ne è un presupposto. Come scrive Buccini alla fine del libro, non ci sono buoni e cattivi, ma solo la speranza che i magistrati smettano di insegnare ai politici a stare a tavola e che i politici imparino a non sprecare le pere. Alle sue parole preoccupate e condivisibili, aggiungiamo l’auspicio che i secondi siano all’altezza delle trasformazioni del mondo in cui viviamo, con competenza, passione e senso di responsabilità.