la Repubblica, 14 marzo 2024
Intervista a Chiara Muti
Tanto vale non girarci troppo attorno, e lei, senza civetteria, risponde: «Esser figlia d’arte è stata una fortuna. Ho due genitori straordinari che fin da piccola mi hanno fatto amare il teatro. Sono cresciuta qui alla Scala. Da bambina alle prove, con mio padre in buca, io stavo a guardare le luci che si trasformavano, i cantanti che diventavano il personaggio... era un sogno che si animava. Ho visto giganti al lavoro, Strehler, che poi è stato il mio maestro alla scuola del Piccolo, Ronconi, Cavani... Non so nemmeno io quante “prime” scaligere mi sono fatta».
Ma adesso tocca a lei. Chiara Muti realizza la sua prima regia alla Scala di Milano, il Guillaume Tell di Rossini, dal 20 marzo, con la direzione di un rossiniano doc come Michele Mariotti e Michele Pertusi nel ruolo del titolo. Storia di portata biblica, sul bene e il male, la schiavitù e la libertà, opera imponente e mai rappresentata in francese nel teatro milanese.
«Come sto? Mi sveglio la notte pensando alle cose da sistemare – dice Chiara – Sono una fissata, una perfezionista». È la scuola di famiglia, del padre Riccardo, il grande direttore d’orchestra, dall’86 per 19 anni direttore musicale della Scala, e di sua madre, Cristina Mazzavillani, regista e ideatrice culturale. Dei tre figli Muti, lei, occhi verdi, una grazia naturale, è la secondogenita: ha 51 anni, 30 di esperienza da attrice e regista di prosa e di opera, e il più recente successo è il bel Don Giovanni dello scorso anno al Regio di Torino. «Quando Meier, il sovrintendente della Scala, mi ha proposto Guillaume Tell mi è venuto un colpo. Tra l’altro ricordo benissimo l’edizione dell’88, con mio padre e la visionaria regia di Ronconi... ma ho accettato la sfida.
La Scala è un bel carico di emozioni».
Ed è bello o brutto?
«Bellissimo. Entrare in portineria e vedere persone che si ricordano di me... La Scala è una casa».
Quando suo padre la lasciò, il clima però non era felice.
«In questo teatro ha vissuto grandi emozioni che rimangono nella storia e in famiglia le abbiamo condivise. Giorni fa, sono venuti alcuni macchinisti con un martello. “Questo è la storia” dicevano mostrandomi la firma di mio padre sul manico di legno. È affetto che non si cancella, lo sento come un viatico per me ora».
In scena non ci sono ruscelli, montagne svizzere...
«Nell’opera la Svizzera tra Duecento e Trecento è fiaccata dal dominio austriaco, è un mondo senza libertà, annichilito, impaurito, disumanizzato. Mi ha rinviato a Metropolis di Fritz Lang, il film del 1927, capolavoro assoluto».
E perché?
«Mi sono chiesta qual è la schiavitù che ci schiaccia oggi. Come
Metropolis profeticamente mostrava la tecnologia, le macchine che cancellano l’umanità, io ho visto noi stessi, sempre piegati sullo schermo del cellulare, incapaci di guardarci intorno. E così ho immaginato gli svizzeri. In un mondo oscuro, senza luce. No, non con il cellulare in mano ma con una luce che si rifrange sul loro viso, una luce che mangia l’anima e lascia uomini e donne come lobotomizzati, indifferenti. Anche la musica, persino quando è lieve, ha sempre questa oscurità di fondo, tipica di Rossini, un genio che doveva essere bipolare, amava i piaceri della vita ed era depresso cronico».
Non è troppo pessimista verso la tecnologia?
«Non voglio essere apocalittica, ma stiamo perdendo la nostra libertà auto-asservendoci a una tecnologia che ci imporrà sempre di più regoleassurde e disumane. Guardo i miei nipoti, mia figlia e vedo una gioventù che matura velocemente grazie ad essa, ma perde tantissimo, incapace di relazionarsi. Poi, vai a saperlo: magari, sono solo una donna del passato, che adora la fatica del lavoro di campagna».
Lei non vive a Parigi?
«Ci siamo trasferiti in campagna.
Sempre in Francia. Per mio marito, David Fray. È pianista, lo conobbi a un concerto con mio padre, me ne sono innamorata subito, e lui non lascerebbe mai il suo paese, come tanti francesi. La campagna è bella, anche se lavorando tutti e due, non è semplice. Si parla di parità ma chi è dei due che deve rinunciare di più? Ora che manco da casa da un mese, mi sento in colpa per mia figlia che ha 13 anni. Poi, a breve, dovrò preparare la prossima regia, il Giulio Cesare di Haendel. Ho anche scritto un testo teatrale, L’enfant oublié, sul delfino di Francia figlio di Maria Antonietta, morto di tubercolosi ossea, che mi piacerebbe fare in italiano. Ma troppo lavoro anche no. Sono diventata giardiniera, mi piace stare con le mani nella terra. Per questo se sento di neuro link, microchip nel cervello, mi chiedo dove stiamo andando».
Lei che pensa?
«Che dovremmo tornare ad alzare lo sguardo verso le stelle come dice Schiller, a cui Rossini si è ispirato.
Gli svizzeri avevano Guglielmo, il puro, l’uomo consapevole, per noi, credo, la salvezza sia l’educazione, la cultura. L’arte e il teatro oggi sono luoghi di resistenza di umanità. Per questo alla fine del mio spettacolo, quando c’è il miraggio di un mondo libero, non ho voluto usare alcuna tecnologia ma solo un fondale colorato dai grandi artigiani che hanno fatto la storia della Scala, una sapienza antica che spero resisterà per sempre».