La Stampa, 14 marzo 2024
Intervista a Elif Batuman
L’America è una terra di stratificazioni. Ma le stratificazioni americane a volte incarnano anche la più grande forma di semplificazione si possa applicare a un paese di costanti scossoni e rivoluzioni, assestamenti e moti d’ira.A volte, scrittrici e scrittori sono in grado di cogliere la profondità di questo intrico. Elif Batuman è una di loro. È nata da una famiglia turca, prima generazione, destinata ad arricchire il mosaico americano da dentro. Nei suoi romanzi L’idiota, uscito nel 2017, e il nuovo Aut-aut (entrambi Einaudi, il primo tradotto da Martina Testa e il secondo da Federica Aceto) parla di sé adolescente cercando di nascondersi. Attraverso il college, Harvard, le aspettative e un amore forzato, deprimente, distante. La scelta dell’arte, la sfida della letteratura, la certezza di fare la figura dell’imbecille. Ma parla anche, e forse soprattutto, di quelle rivoluzioni e di quegli scossoni che continuano a cambiare il panorama di un continente contraddittorio, che ama i suoi figli ed è geloso delle sue figlie, che è religioso e ateo, politico e disinteressato, belligerante e pacifista, tutto allo stesso tempo. Batuman, turca nata in America, ne è l’essenza fondamentale.Si sente intrappolata tra due culture?«Intrappolata non direi. Divisa, forse. Sono la prima della mia famiglia a non essere nata in Turchia e sono figlia unica. Sono cresciuta come si cresce tra le prime generazioni: con la tradizione familiare da una parte e la tradizione americana dall’altra. Una condizione tanto comune che ormai è quasi un cliché».È stato opprimente?«No, affatto. Ad Harvard avevano tutti un bagaglio culturale diverso. E questo dovrebbe essere indicativo».In che senso?«Si sente dire e si legge continuamente di quanto la cultura d’origine sia più tradizionalista, più limitante per un artista perché impone di partecipare maggiormente alla vita in famiglia, che abbia più necessità di attaccamento alle radici e che quindi non lasci la libertà di scegliere quello che si vuole per se stessi in nome del proseguimento della tradizione».È vero?«Lo è stato un po’, per me. Ma non completamente. Non in maniera così soverchiante. La Turchia è un paese insolito e i miei genitori sono delle persone insolite anche per la Turchia. Ho più che altro beneficiato della mia tradizione familiare, ho potuto godere della ricchezza culturale che mi concedeva, del mistero e anche della tristezza che la tradizione turca porta con sé».E con l’America che rapporto ha?«Il primo termine che mi viene in mente è “utilitaristico”. L’America offre molte più opportunità rispetto alla Turchia, ma è più piatta culturalmente. Molte amiche e amici turchi che volevano fare gli scrittori hanno cominciato a scrivere in inglese, perché il loro Paese non gli concedeva abbastanza possibilità economiche, abbastanza sbocchi».L’America è un mezzo?«In certi casi, sì. È un vettore che permette di convogliare le storie di chiunque si trovi nella condizione di poterne approfittare. Però spesso ci scordiamo che anche gli Stati Uniti hanno una storia ricca, malinconica, triste come quella di tutti gli altri Paesi, che ultimamente viene raccontata molto meno ma non ha nulla da invidiare alle storie di immigrazione. Anzi, ora che tutti hanno una storia di immigrazione, è più interessante. È piena di mistero».Mistero?«Sì, sì. Ci sono vicende orribili nascoste nella storia americana che diventerebbero grande letteratura, ma se ne parla pochissimo».Servirebbe a togliersi un peso?«Forse. O forse sarebbe solo interessante vedere come un popolo costruito sulla stratificazione ostentata e su una certa forma di omologazione, che finisce per dare a tutte le provenienze la stessa voce, a insegnare a tutti la stessa lingua letteraria, torni alla visceralità della sua storia».Lei si sente una scrittrice politica?«Sì. No. Non sono sicura. Sì, in certi casi. Assolutamente no, in altri. Quando ho scritto L’idiota, che di fatto era la storia di una ragazza che sceglie l’arte al posto della politica, non sapevo che sarebbe uscito in un momento di così grande fermento sociale. L’ho consegnato nel 2016, quando pensavamo che Hillary Clinton sarebbe stata presidente, ed è uscito all’insediamento di Donald Trump. Quindi tutti mi chiedevano cosa ne pensassi del “muslim ban” e di tutte le sue uscite idiote».Il tempismo è tutto!«E non è finita: la traduzione italiana è uscita appena dopo che Matteo Salvini aveva deciso di rimpatriare i profughi siriani. Quindi: il destino cercava di dirmi qualcosa e ho cominciato a chiedermi se non avrei dovuto battere di più sul fronte politico, usare la scrittura come uno strumento di combattimento».Come?«Parlando più direttamente di imperialismo, patriarcato, deumanizzazione. Del fatto che il femminismo è stato superato dai tempi, è diventato riduttivo. Ma forse non è tanto la forma a contare nella lotta, quanto il sentimento che trapela dalla scrittura».È successo con Aut-aut?«Più coscientemente. Un po’ perché avevo imparato a capire i tempi che corrono: siamo in un’epoca di abusi su tutti i fronti e se abbiamo un mezzo per contrastarli, forse dovremmo usarlo. Selin, la mia protagonista, sceglie l’amore invece della politica e per amore commette tutti i suoi errori. Politicamente, è un argomento serissimo: qualsiasi posizione politica che non prenda in considerazione l’amore non è nemmeno politica».Quindi, in fondo, la politica è dappertutto.«La politica è inconscia, ma solo fino a un certo punto».Cioè?«Ad Harvard esiste un tipo di studenti, tutti uomini, che chiamiamo “Gov Jocks": praticamente individui predestinati alla vita politica, che ne studiano i sistemi e imparano, di fatto, a governare. Ne ho scritto nei miei romanzi, e ho pensato di aver esagerato a scopi umoristici. Poi con il dibattito sull’aborto e in particolare con il caso di Christine Blasey Ford e delle accuse di stupro mosse al giudice della Corte Suprema Brett Kavanaugh mi sono accorta di essere stata troppo cauta nel mio racconto».Kavanaugh è un “Gov Jock”?«Dei peggiori. Di quelli destinati a diventare intoccabili, a ricoprire le più alte cariche senza più poter essere accusati di nulla. Ford è diventata una stimatissima psicologa infantile, eppure quando ha sollevato le sue accuse la legge non l’ha presa sul serio, ha dovuto attraversare l’inferno perché le dessero retta. Ed è laureata a Standford, che è un’università prestigiosissima».Però?«È una donna, non ha studiato per governare, non viene dalla Ivy League. È l’essenza del sistema americano: preparare le menti a sua immagine e somiglianza».Non sta cambiando niente, su quel piano?«Qualcosa, negli ultimi anni l’attivismo ha fatto tanto, ha sollevato un sacco di voci. Però siamo all’alba di un nuovo mandato di Trump. Mi chiedo se reggerà».La letteratura aiuta?«Non lo so. Io sono passata dal voler fare un libro su quanto i libri mi hanno rovinato la vita a chiedermi se non sia più opportuno scrivere per cercare una soluzione ai problemi reali. Quello che ho visto girando per le università è che gli studenti prendono cosa scriviamo e ne fanno quello che vogliono. E se vogliono, prendono un mio romanzo e lo trasformano nel loro manifesto. E mi sono resa conto che io avevo fatto la stessa cosa con Anna Karenina. Quindi sì: la letteratura aiuta perché esiste, e questo è tanto dire». —