La Stampa, 14 marzo 2024
Processo a Polanski
Il 4 agosto del 2025, due settimane prima del suo novantaduesimo compleanno, Roman Polanski è atteso in tribunale, a Los Angeles, per rispondere di un’accusa di stupro di minore, che sarebbe avvenuta cinquant’anni fa. Raccontare la storia, con tutti i dettagli, può aiutarci a rispondere alle molte domande che, legittimamente e doverosamente, ci pone il veder mandare a processo un uomo di novant’anni per qualcosa che ha fatto cinque decenni fa, in un altro mondo, in un altro tempo? Forse.
L’accusatrice di Polanski, protetta dal nome di fantasia Jane Doe, aveva già provato a denunciarlo nel 2017, ma invano: all’epoca, la legislazione californiana sulla violenza sessuale era più lasca rispetto ai tempi della prescrizione del reato così come rispetto ai termini consentiti per sporgere denuncia. Ad assisterla, l’avvocatessa che ha già difeso le vittime di Epstein e Bill Cosby, Gloria Allred. L’anno scorso, quando la California ha ristretto quella maglia per i casi di violenza su minori, Jane Doe ha sporto nuovamente denuncia.
I fatti, così come li ha raccontati la presunta vittima alla polizia californiana, sono questi. Nel 1973, Roman Polanski ha 40 anni. Sta lavorando al suo ottavo film, Chinatown. Conosce Jane Doe a una festa. Mesi dopo, la invita a cena. Le offre da bere. Sa che è minorenne. La porta a casa sua, a Los Angeles, lei se ne rende conto appena: è ubriaca. Lui vuole fare sesso, lei no. Gli dice: per favore, non farlo. Lui le toglie i vestiti e la violenta. La accompagna a casa. Non la rivede più.
Pochi anni dopo, nel 1977, Polanski invita Samantha Geimer, tredicenne, a casa di Jack Nicholson: faremo delle foto per Vogue, le dice. Invece, le offre da bere e la stupra. Lei lo denuncia. Lui viene arrestato, processato e condannato a 90 giorni di carcere. Lui ne sconta 42 ed esce. Scappa in Francia, dove vive tutt’ora. E non torna mai più in America. Non ha mai negato la sua colpevolezza. Nel 1979, in un’intervista a Martin Amis, parlando dell’accaduto, Polanski dice: «Prima ancora del mio arresto i cronisti avevano chiamato la polizia per riuscire a mettere a segno lo scoop. Mi rendo conto che se avessi ammazzato qualcuno l’ingordigia della stampa non sarebbe arrivata fino a quel punto. Che c’è di meglio di una scopata, e per di più con una ragazzina? Ai giudici piace scoparsi le ragazzine. Anche ai giurati. Tutti se le vorrebbero scopare! E allora mi sono reso conto che quella sarebbe diventata una faccenda davvero grossa, grossissima». Amis scrive in quel pezzo che Polanski è «uno zimbello della fortuna», ricordando che poco dopo l’assassinio di sua moglie, Sharon Tate, trucidata nel 1969 da alcuni membri della Manson Family, la stampa si è accanita contro di lui, accusando i coniugi Polanski di «aver aperto le porte alla propria nemesi con l’uso di droghe, strani rituali, un tipo di vita decadente».
Nell’estate del 2017, pochi mesi prima del #MeToo, Samantha Geimer va in tribunale a Los Angeles e chiede l’archiviazione del caso. E la chiede ancora pochi giorni fa, il 12 marzo, dicendo: «Siamo esseri umani, non vincitori o perdenti». In questi anni, Geimer ha ribadito più volte quello che ha scritto nel suo memoir, The Girl, e cioè: «è sbagliato chiedere alle persone di sentirsi vittime, perché, una volta che lo fanno, poi si sentiranno vittime in ogni settore della loro vita. Ho preso una decisione: non sarei stata vittima di nessuno né per nessuno. Non Roman, non lo Stato della California, non i media». Insieme a questo, Geimer ha ribadito più volte di aver perdonato Polanski e di essere con lui in buoni rapporti. La filosofa Simone Weil ha scritto che è impossibile perdonare chi ci ha fatto del male, se quel male ci abbassa: «Bisogna pensare che non ci ha abbassati, ma che ha rivelato il nostro reale interesse». Domande. Uno: quando perdoniamo, rispetto a cosa dimostriamo il nostro interesse? All’entità del crimine o all’ umanità del carnefice? Due: è sempre vero che senza perdono non c’è giustizia? Tre: quando perdoniamo, rinunciamo a dare giustizia alle vittime ma rendiamo giustizia a un principio? E qual è quel principio? Tra il 2017 e il 2019, altre quattro donne hanno accusato Roman Polanski di abusi e violenze: due di loro, Marianne Barnard e Charlotte Lewis, hanno raccontato che all’epoca dei fatti avevano l’una dieci e l’altra 16 anni. Polanski si è sempre detto innocente. Non sono mancate, in questi ultimi anni, le polemiche: le Femen si sono scritte addosso “Very Important Pedocriminale” quando la Cinémathèque Française gli ha dedicato una retrospettiva, e ai César del 2020, quando ha vinto tre premi, la sala ha fischiato e l’attrice Adèle Haenel ha abbandonato la sala in segno di protesta. In quella occasione, la scrittrice Virginie Despentes ha scritto su Libèration: «I potenti amano gli stupratori. Non li amano malgrado siano stupratori e perché hanno talento. Gli si riconosce del talento e dello stile perché sono degli stupratori. Li amano per questo. Per il coraggio che hanno nel rivendicare la morbosità del loro piacere, la loro pulsione molle e sistematica di distruzione dell’altro, di distruzione, in verità, di tutto ciò che toccano. Sapete bene quello che fate quando difendete Polanski: esigete che vi si ammiri fin nella vostra delinquenza. Se lo stupratore di bambini fosse il bidello non ci sarebbe limite: polizia, prigione, dichiarazioni roboanti, difesa della vittima e condanna generale. Ma se lo stupratore è un potente: rispetto e solidarietà». Combattere l’impunità dei potenti è stato ed è uno dei punti cardine della riflessione, prima ancora che della lotta, che il #Metoo ha provato a istruire rispetto alla violenza sessuale, ma non è questo che seda i dubbi sul mandare a processo un ultranovantenne per qualcosa che potrebbe aver fatto cinquant’anni fa (quali dubbi? Innanzitutto il fatto che, più che di giustizia, si possa trattare di vendetta).
Quello che sta facendo cambiare, in alcune parti del mondo, la legislazione sulla violenza sessuale, ha molto spesso a che fare con una revisione del tempo, che prima veniva usato quasi esclusivamente per garantire la veridicità di una testimonianza (prima denunci, più prove hai sul corpo di cosa hai subito); ora, si prova a far sì che il tempo non sia uno schiacciante fattore di valutazione. Si prova a tradurre in giustizia quello che abbiamo imparato in questi anni, perché le donne lo hanno raccontato: capire di aver subito uno stupro richiede mesi, a volte anni, e consapevolezza; decidere di denunciare uno stupro richiede mesi, a volte anni, consapevolezza e protezione, talvolta persino potere. E soprattutto, (soprattutto), subire uno stupro è qualcosa che può cambiare irreversibilmente la vita di chi lo subisce. E dirlo attraverso un processo che avviene a distanza di decenni dal fatto presunto, significa dare alle nostre società una contezza più precisa di cos’è uno stupro, e del fatto che è un reato che, per chi lo subisce, non si estingue, anche se chi lo subisce sopravvive, proprio perché sopravvive. Significa dire che non lo possiamo più accettare, anche se per secoli lo abbiamo fatto, proprio perché per secoli lo abbiamo fatto. —