il Giornale, 14 marzo 2024
Intervista a Michelangelo Pistoletto
B envenuti nella Cittadellarte di Biella, il regno di Michelangelo Pistoletto, decano dell’Arte Povera che a 90 anni è ancora lucidamente al centro della scena, a cavallo tra passato, presente e futuro. Qui, nella «città ideale» fondata nel 1998 nell’archeologia industriale di un ex Lanificio, fa convergere tutto l’anno artisti, scienziati, attivisti, imprenditori, studiosi, amministratori, coltivatori, designer, architetti, medici e rappresentanti delle istituzioni. E sempre da qui, in occasione dell’appena inaugurata mostra a Palazzo Gromo sugli street artist Banksy, Jago, TvBoy e altre storie controcorrente, nasce l’idea di un confronto tra vecchie e nuove generazioni sul ruolo dell’artista nella società globalizzata. Su questi temi ieri Pistoletto si è confrontato pubblicamente con Jago, soprannominato «rockstar della scultura».
Pistoletto, lei negli anni Settanta è stato tra i pionieri di una corrente artistica il cui manifesto, redatto da Germano Celant, conteneva «appunti per una guerriglia». L’artista di oggi deve affrontare un mondo migliore o peggiore di quello di allora?
«Beh, eravamo alla vigilia del ’68 e l’arte non si sottraeva alle dinamiche di un movimento che denunciava il crescente consumismo figlio della cultura capitalistica. Da allora ad oggi molte conquiste sociali sono state raggiunte e c’è obbiettivamente un benessere più diffuso. Gli artisti però – che restano il lato sensibile del pensiero e dell’azione – oggi sono più soli di allora, perché mancano i punti di riferimento in cui cercare rifugio, oppure da combattere: la politica, la famiglia, la religione, la scuola, il sindacato... Ma proprio perché è più solo, l’artista è oggi chiamato a un sforzo maggiore di responsabilità verso la società e verso il pianeta. Con le sue creazioni e le sue azioni deve diventare maestro del cambiamento».
In nome di questa utopia del cambiamento, nella sua Biella ha inventato la Cittadellarte dove gli artisti dialogano con le imprese per una «nuova economia»; in giro per il mondo porta avanti il suo progetto «Terzo Paradiso» che teorizza un’umanità in cui Natura e artificio sono connessi armonicamente. Che cosa fate esattamente?
«Sosteniamo una serie di progetti finalizzati alla rigenerazione di un mondo che va in progressivo degrado ecologico ed economico. Non siamo certo gli unici a parlare di sviluppo sostenibile, ma oggi è indispensabile una nuova economia che investa nella sanificazione del pianeta anziché nel suo sfruttamento e nella sua distruzione. In tutto il mondo ho fondato le ambasciate del Terzo Paradiso che attraverso idee e progetti creativi contribuiscono a ispirare una trasformazione del territorio in senso responsabile».
A Cittadellarte ha attivato progetti con le aziende e perfino una scuola di moda. Il capitalismo non le fa più paura?
«Io propongo una visione virtuosa dove gli artisti coinvolgono le imprese in progetti di sviluppo etico e sostenibile. Per quanto riguarda la moda, parliamo di un equilibrio produttivo e creativo che si basa principalmente sul riciclo dei materiali».
Torniamo all’arte. Nei giorni scorsi, a sue spese, ha riallestito a Napoli la Venere degli stracci che era stata distrutta in un rogo. Perché continua a proporre l’ennesima versione di quell’opera del ’67?
«La Venere è un simbolo sempre più attuale e si innesta perfettamente nel progetto del Terzo Paradiso: rappresenta il bisogno della civiltà di ritornare a una Grande Bellezza che prevalga sui detriti del consumismo che ha ridotto il mondo a un mucchio di stracci, appunto. La scultura resterà altri tre mesi nella piazza del Municipio, poi la donerò alla città».
A quanto si sa, l’opera dovrebbe finire nella Basilica di San Pietro ad Aram nel rione Sanità. La scelta di un luogo sacro è una provocazione?
«Penso sia giusto che la Venere finisca in un luogo di venerazione e rappresenti un monito contro il degrado dell’umanità. Quella chiesa, inoltre, è uno dei siti dove è attivo il progetto Policoro della Diocesi che avvia le persone disagiate a progetti di rinascita e lavoro; accoglierà anche Simone, il giovane senzatetto che ha appiccato il fuoco all’opera».
Perché secondo lei quel ragazzo ha voluto bruciare il suo simbolo?
«Se devo essere sincero, su questa vicenda ci sono molti punti oscuri. Perché un povero clochard avrebbe dovuto avere le tasche piene di accendini?».
Parliamo delle sue opere celebri nei musei di tutto il mondo, i «quadri specchianti» il cui senso è condividere la propria identità con il mondo attraverso uno specchio. Avrebbe mai immaginato, 60 anni dopo, di ritrovarsi nella società dei selfie?
«Beh, in fondo i miei quadri specchianti sono davvero dei selfie ante litteram perché tutti gli spettatori diventano partecipi di un’opera attraverso la propria immagine specchiata. È un concetto estremamente social e chiunque può entrare a farne parte, anche sconosciuti inconsapevoli. È un po’ come succede oggi quando un selfie viene postato nella Rete diventando parte di un museo universale».
La bulimia di immagini postate sulla Rete non rischia di creare alienazione, cioè l’esatto contrario di quello che intendeva lei negli anni Sessanta?
«Dipende tutto dal grado di consapevolezza dell’autore. Internet può essere uno strumento pericoloso ma anche prezioso per creare una coscienza condivisa e per una partecipazione attiva ai processi di cambiamento».
Lei è molto ottimista. Con i suoi progetti spera davvero di cambiare il mondo?
«Non so se ci riuscirò ma a 90 anni, mentre ci provo, sono felice»