Corriere della Sera, 13 marzo 2024
Intervista a Renato Zero
«Mamma preparava le lasagne a casa e poi andavamo tutti a Ostia. Consumavamo in spiaggia. Il trenino fermava a Castel Fusano, bisognava farsi quaranta minuti a piedi, il mare te lo dovevi guadagnare, non era gratis». Dall’infanzia nella centrale via Ripetta, passando per l’allora borgata Montagnola – dove viveva in un condominio abitato da poliziotti, colleghi di papà Domenico – Renato Zero è andato lontano. I concerti per «Autoritratto», dal 13 marzo a Roma per otto date, a giugno a Bari e Napoli, collezionano sold out. «Il successo è una bestia feroce. O lo tieni a bada o fa disastri. Non mi ci sono mai abituato. I miei 73 anni mi sembrano un boato, ma non si finisce mai di conoscere e non si inventa mai abbastanza».
Ci torna spesso a Ostia?
«È cambiata, l’acqua ha mangiato la spiaggia. Però il mare a 20 minuti da Roma è un sogno. Ci vado in moto per mangiare il pesce». È un centauro? «Ho una Harley Davidson a tre ruote. Ho sempre avuto il pallino per queste moto, le altre mi fanno paura. Quelle giapponesi sono da corsa, hanno una grinta mostruosa, l’Harley è tutto fumo e niente arrosto. La marmitta fa ’sto rumore infernale però la sua bellezza è nella carenatura, nelle ruote, è fatta per andare piano, godersi il vento».
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Anche da giovane girava con il sidecar.
«Oggi con tutte le buche di Roma sarei finito in ospedale. Malgrado la popolarità, ho vissuto come un impunito, la libertà per me è fondamentale per esistere e stare bene, mi sono mosso senza limiti. Per questo vado ancora in moto, non bisogna mai perdere le sane abitudini».
Con il sidecar ha dato un passaggio a Fellini. E con la Harley?
«Federico l’ho portato fino a Cinecittà, seduto in quella specie d’appendice che era come stare in una vasca da bagno. Comoda. Io indossavo un casco da pompiere e gli occhialoni. Lui con una mano teneva fermo il cappello sulla testa, con l’altra stringeva i giornali. La Harley, invece, è alta una quaresima, dietro non si sta benissimo, le passeggiate vanno fatte da soli».
A Firenze, al debutto dei nuovi live, ha raccontato che una piazza del suo letto è vuota.
«Venire da una famiglia strafelice rallenta l’entusiasmo: è riuscito tanto bene a loro perché ci devo riprovare io? Mi pare un’impresa titanica. Preferisco, da sempre, un’amicizia salda. Non importa da quale genere provenga, anche se, di dieci amici, sette sono femmine e tre maschi: la donna ha preso di diritto una posizione molto alta nella hit parade della credibilità».
Mamma Ada, un esempio.
«Quando penso a lei mi vengono in mente la sua devozione verso mio padre, il sacrificio di salire la scalinata di Trinità dei Monti tre volte al giorno: per portare i figli a scuola dalle suore francesi del Sacro Cuore, consegnarci il pranzo nel cesto di vimini e venirci a riprendere. E lavorava pure in ospedale, al Santo Spirito. Si dice: le donne di una volta avevano una fibra incredibile. Ce l’hanno pure oggi, solo che l’uomo non ammette di avere perso».
Dice che bisogna tornare in piazza. Lei quando c’è stato?
«Il palco e la platea sono la mia piazza. Da me vengono i borghesi, il popolino e persone di alto loco. Ho coinvolto le bandiere e i pensieri più disparati. Sono stato bambino al centro di Roma, dove i profumi del cibo si sentivano fino alla strada. Non esistevano barriere, tetti, pareti».
Cosa le manca?
«Non ci sono più i luoghi dove il dialogo è favorito. C’è una leggerezza e un degrado che fanno paura». Di chi è la colpa? «Montecitorio è lontano dalla vita del Paese. C’è una distanza abissale fra un politico e l’alzata alle 5 di un muratore. Ricordo Berlinguer, Almirante, Andreotti andare nelle periferie per ascoltare le voci più esili. Ora i politici li vedo molto in tv e poco nella vita».
A destra o a sinistra?
«Seguire un partito è una scelta autonoma. Ma non deve mancare l’obiettività».
Il filosofo e politico di sinistra Mario Tronti, cugino di sua madre, disse che lei è un uomo del popolo.
«È come se avessi vinto un Oscar, perché sono parole di una persona che ha conquistato stima e credibilità. I genitori avevano un banco di odori ai mercati generali, ma riuscirono a farlo studiare. Ho sempre invidiato le persone colte, trovarmi di fronte a qualcuno che aveva guadagnato una laurea era uno smacco perché sapevo che non avrei mai intrapreso quel cammino. Però mi inorgogliva che si prendesse cura degli operai, delle persone che non riuscivano a difendersi».
È tifoso della Roma.
«Non sono un assiduo sostenitore del calcio, tranne se preso per bocca, per rinforzare le ossa. In generale, con gli ingaggi che percepiscono, i giocatori potrebbero addirittura camminare sulle acque. Però una fede sportiva non va mai rinnegata, poiché si porta sempre a casa una coppa!».
Lei è generoso con i giovani artisti.
«Quando hai assaporato i dinieghi sai bene come ci si sente all’ombra di quei no. Mi rivedo in questi giovani, nelle loro timidezze e insicurezze».
A Rino Gaetano regalò un cappello per Sanremo.
«Diceva che il suo cilindro di feltro era troppo pesante, così gli portai da casa una tuba nera. Leggerissima. Rino è stato per me una prospettiva mancata. Quando uscivamo insieme era pieno di verve, un vulcano. Qualcuno dei nostri amici mi avvertì: Rino ha un equilibrio labile. Andandosene via all’improvviso mi ha tolto l’opportunità di aiutarlo e questo mi ha ferito».
Sul palco con Elodie.
«Mi ha cercato lei, ma io non vedevo l’ora che mi chiamasse, ha un’enorme energia. Voleva cantare Mi vendo. Io: «No, amore. Hai delle corde formidabili, da grande interprete, meglio Nei giardini che nessuno sa”. E credo si sia commossa in scena perché ha scoperto quella dote».
Lei alla Montagnola ed Elodie al Quartaccio: siete cresciuti nella periferia romana.
«Per me anni complessi ma di formazione. È stato l’unico momento in cui mi prendeva l’inquietudine: quando uscivo da casa, truccato e con le piume, e speravo di tornarci sano. Ho accumulato insulti irripetibili, forse li racchiuderò in un libro. Ma le difficoltà danno coraggio. Poi è arrivato l’armistizio, la gente ha capito che la mia era una sfida con me stesso e contro i tabù».
Di schiaffi ne ha presi.
«Sì, la sconfitta di Fonopoli... la chiusura del tendone di Zerolandia, quando un prefetto mi tolse le ali facendo mettere i sigilli. Ma oggi vivo in un abbraccio continuo: ciao Rena’, abbello, maestro. Non voglio la Croce di Cavaliere del Lavoro, però mi stupisco che molte persone vadano via senza aver ottenuto neanche un grazie dalla vita».