La Lettura, 10 marzo 2024
Il libro di Franchini, ovvero comne odiare la propria madre
Per quanto lirico possa apparire il titolo, Il fuoco che ti porti dentro, il nuovo libro di Antonio Franchini è un’opera di ferocia inaudita. Tuttavia le si farebbe torto relegandola al rango di invettiva. Implacabile come i libri di Jamaica Kincaid, è una divagazione oltremodo franchiniana sulla spaventosità dei legami di sangue e sul mestiere di essere figli. Non a caso la protagonista indiscussa del libro, oggetto polemico della requisitoria, è la madre del narratore. Poco importa che si tratti di Angela Izzo, la madre di Antonio Franchini. A contare è il suo statuto di personaggio letterario dotato di una personalità peculiare e di una voce che più unica non potrebbe essere.
Per avere un’idea di quanto Franchini ci vada giù duro basti la seguente affermazione preliminare: «La detesto da sempre, da quando la mia vita ha cominciato a staccarsi dalla sua e si è aperta sul mondo, perché ci ho messo poco a capire che il mondo giusto – quel luogo inesistente che i giovani sognano e alcuni adulti idealisti si impegnano a farli credere che esista – faceva, diceva, pensava tutto ciò che mia madre non faceva, non diceva, non pensava. Mi ha dato un’educazione a rovescio: i valori ai quali si ispira o li esprime in una forma riprovevole o sono disvalori veri e propri».
Insomma, l’odio non è fine a sé stesso, ma, come capita nella migliore narrativa, è scelta di campo e strumento di conoscenza. Da qui occorre partire per raccapezzarsi.
Immagino che esista una letteratura critica (di cui sono all’oscuro) che ha indagato sulla natura fosca e fantasmatica della narrativa napoletana: da Anna Maria Ortese, passando per Domenico Rea, fino a Domenico Starnone, c’è un’anima nera che grava sugli scrittori partenopei. Il timore di lasciarsi contagiare dall’esotismo e dal folclore che affliggono la loro città, li induce a mostrare gli artigli a ogni capoverso. Come se non vedessero l’ora di dire al lettore: so come la pensi, ma non farti ingannare dalle apparenze, qui da noi è un vero inferno.
Il tono di Franchini – dalle cadenze cantilenanti e il piglio viscerale – ha un vago sentore di Elsa Morante, non della Storia ma di Aracoeli naturalmente. Si avverte lo strazio di chi, impantanato nel male di vivere, lo esorcizza con frasi aspre, mirabilmente tornite: «E questo stillicidio di egoismo e diffidenza mi arriva addosso mattina, mezzogiorno e sera, ogni anno e per anni e anni, e lo avverto prima con estraneità e sospetto, poi con estraneità e fastidio, poi con estraneità e rabbia, perché allora sì che sento il sangue ribollire e torcersi i visceri, quando penso: ma io che c’entro con questa donna? che cos’ho da spartire con queste carni dalle quali sono uscito e dalle quali tutto mi separa?».
Scrivere questo pezzo è imbarazzante. È come violare un patto sottoscritto con me stesso parecchi anni fa quando Antonio era il mio editor, e in un certo senso, sebbene alla sua maniera, il mio mentore. Vi assicuro che mi guarderei bene dal farlo se tra noi esistesse ancora un rapporto professionale. Sin dal principio del nostro sodalizio, infatti, mi fu subito chiaro che Franchini non gradiva parlare del suo lavoro di scrittore con gli autori della sua scuderia.
Ricordo ancora il suo primo invito a cena. Mi presentai preparato. Avevo appena letto Cronaca della fine, il suo ultimo libro dedicato alla controversa figura di Dante Virgili. Il tono serio e meditabondo con cui era scritto non si addiceva all’uomo scanzonato che mi aveva accolto nel suo appartamento milanese. Spalle forti, braccia nerborute, mento aguzzo, naso da pugile sovrastato da un paio di occhialoni dalle lenti spesse. La sgargiante giacca di velluto era insieme insulto al buongusto e provocazione anti-borghese. Avendo letto (e amato) Quando vi ucciderete, maestro? conoscevo l’ossessione di Franchini per le arti marziali. Non solo aveva un pungiball che pendeva dal soffitto, al centro del salotto, ma gli piaceva intrattenere gli ospiti con le cronache delle ore passate in palestre equivoche a darsela di santa ragione con energumeni di dubbia reputazione.
Ben presto capii che si trattava di una delle sue strategie di dissimulazione, figlie di un’eleganza naturale. A quanto pareva, erano parecchie le cose su cui ci intendevamo: anche lui mostrava un sostanziale disinteresse per la politica e per ogni forma di contrapposizione ideologica. A lui interessavano le persone e i libri (in quest’ordine preciso). Per diletto, suo e degli interlocutori, scolpiva vividi medaglioni umani ricchi di trovate e sottigliezze, compiacendosi delle debolezze altrui non meno che delle proprie. Ascoltandolo, ritrovai l’attitudine dei suoi libri migliori di mescolare, fino a renderli magneticamente indistinguibili, dati reali e dati fittizi. Con il senno di poi, si può dire che un libro come L’abusivo — per materia e per forma – sia apparso sugli scaffali delle librerie con una ventina d’anni di anticipo. Oggi mi chiedo se la sua fedeltà a quel genere così severamente ancorato alla realtà non fosse dettato dal disgusto che gli ispiravano i romanzi brutti che la sua professione di editor lo costringeva a leggere, e talvolta persino a pubblicare. Quando, subito dopo cena, gli dissi quanto mi era piaciuto Cronaca della fine, Franchini si schermì in modo strano, come se volesse mettere subito in chiaro che considerava il suo impegno letterario un hobby clandestino da non ostentare in società.
In seguito sarei venuto a sapere che tra i miei colleghi c’era chi soffriva il «secondo mestiere» di Antonio. Un’insofferenza sorprendente considerando che un tempo quasi tutti i grandi editor erano artisti di prim’ordine: Italo Calvino, Giorgio Bassani, Elio Vittorini, per citare i primi nomi che mi vengono in mente. Del resto, non mi sfugge la diffidenza che i suoi libri potevano ispirare in un competitor. Vi assicuro che non è facile avere a che fare con un editor che scrive meglio di te. Malgrado sulla faccenda si mantenesse reticente, era chiaro che considerava gli scrittori, e non solo quelli affidati alle sue cure, individui fragili e supponenti, desolatamente inclini alla vanità, e per questo meritevoli di un trattamento speciale, allo stesso tempo cauto e circospetto. Da allora non l’ho più interpellato sull’altro mestiere. Era troppo grande il timore che mi liquidasse come l’ennesimo leccaculo.
Il tema segreto del Fuoco che ti porti dentro va ben oltre quello ufficiale. A dominare queste pagine infuocate è il sentimento filiale per antonomasia: la vergogna. «L’odio, sì, mi accende e m’infiamma, ma è un sentimento forte e fin troppo puro, per cui difficilmente perdura intatto, e quando si ritira lascia il posto a qualcosa d’altro, un limo grasso e fecondo e tenace. È la vergogna, perché da sempre io mi vergogno di mia madre».
Come capita a molti di noi, anche il narratore di questo libro si sente il prodotto di due stirpi antitetiche che avrebbero fatto bene a non incontrarsi («due razze in antica tenzone» per citare Saba). Non sorprende che le pagine dedicate al padre risultino non meno fulgide di quelle riservate alla madre. Eugenio Franchini incarna la perfetta alterità dialettica rispetto alla giovane moglie. Se lei è una forza della natura, propensa a rabbie, maldicenze e appetiti pantagruelici, minata com’è da una sensualità ribollente e da un gusto per la lotta e la sopraffazione, lui è un borghese mite, posato, elegante, perso nelle sue fantasie di bibliomane. «I miei compagni, finché non lo conoscono, lo temono quando lo vedono passare in corridoio come se fosse sempre assorto in un rovello, la fronte corrugata, il naso aquilino, una piega amara e sprezzante sulle labbra, le spalle ampie da canottiere, l’eleganza irreprensibile delle cravatte, dei colletti duri, delle camicie con le cifre, degli abiti di sartoria, tutto un rigore di ossa, di tendini, di stoffe, di portamento».
Come un siffatto gagà abbia deciso di sposare una ragazzina tanto più giovane di lui, e così socialmente e caratterialmente inadeguata, è il mistero cui il narratore, a distanza di tanti anni, non viene a capo. Ma è anche ciò che meglio definisce la sua natura di uomo in bilico, di individuo con i piedi in due staffe: un meridionale che ama i sobri agi del nord, un napoletano con un debole per i boschi, i torrenti e le montagne innevate, uno scrittore che trova sé stesso nel sudore e nella lotta, un figlio recalcitrante ma tutto sommato sollecito che avrebbe meritato una madre più affettuosa e riconoscente.