La Lettura, 10 marzo 2024
Un libro su Paula Cooper
La tragica storia di Paula Cooper piombò come un macigno nel dibattito italiano. Dal remoto Midwest americano arrivò a Domenica in, condotta nel 1987 da Raffaella Carrà su Raiuno: fu lei a intervistare, in collegamento telefonico con il braccio della morte di un carcere dell’Indiana, la sedicenne condannata alla pena capitale per l’omicidio di Ruth Pelke, catechista di 78 anni massacrata a coltellate. All’epoca, Cooper era la più giovane detenuta americana in attesa di esecuzione. Per Paula, che venne perdonata dal nipote di Ruth, Bill Pelke, ci fu una mobilitazione clamorosa: intervennero Papa Giovanni Paolo II, la Comunità di Sant’Egidio, la ong Nessuno tocchi Caino, Amnesty International, esponenti del Partito radicale, le maggiori testate giornalistiche italiane. Si battevano per salvare una ragazzina che avrebbe passato il resto della vita a combattere con i fantasmi degli abusi subiti in famiglia.
L’omicidio di Ruth Pelke risale al 14 maggio 1985. Insieme con altre tre ragazze minorenni, Paula si fece aprire con una scusa la porta di casa dalla catechista. Credevano di rubare soldi e gioielli. Il corpo della donna venne straziato con 33 coltellate. Il bottino delle quattro adolescenti furono 10 dollari e un’auto usata.
La storia di Paula – la cui condanna alla sedia elettrica venne tramutata, in seguito alla mobilitazione, in carcere a vita prima e a 26 anni per buona condotta poi – è raccontata dettagliatamente nel libro Settanta volte sette (Il Pellegrino edizioni) della giornalista americana Alex Mar. Il titolo spiega la scelta di Bill Pelke. Nel Vangelo di Matteo, Pietro chiede al Signore: «Se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonarlo? Fino a sette volte?». E Gesù risponde: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».
«Ruth ha rappresentato il tipo di donna premurosa su cui Paula non aveva mai potuto contare», dice Alex Mar in collegamento su Zoom con «la Lettura».
Perché ha deciso di dedicare un libro a questa storia?
«La percentuale di donne che negli Stati Uniti commettono un crimine efferato è molto più bassa rispetto agli uomini. Ho cominciato a spulciare gli archivi criminali e un giorno mi sono imbattuta nella storia di Paula Cooper. Sono rimasta scioccata. Ho interrotto tutto quello a cui stavo lavorando. Mi aveva impressionato la giovane età di Paula. All’epoca dell’omicidio aveva soltanto 15 anni. Mi ha colpito la scelta del nipote della signora Pelke di perdonarla pubblicamente e di portare avanti una campagna per salvarle la vita. Non avevo mai sentito una storia del genere. Ho scoperto che il caso di Bill Pelke non era isolato. Mentre facevo ricerche per il libro ho trovato decine di casi simili, dove i famigliari di persone morte in modo violento hanno perdonato gli assassini».
Ha intervistato più di ottanta persone per questo progetto.
«Ho capito fin da subito che sarebbe stato il progetto più importante della mia vita. Cinque anni di ricerca e di scrittura. Ho incontrato molti intervistati di persona perché volevo cogliere il senso delle loro esperienze. Ho ascoltato alcuni di loro più volte, fino a quando non ne potevano più di vedermi o di sentirmi. Ho conosciuto parenti, avvocati, amici di famiglia di Paula e Ruth. A partire da Bill Pelke, l’uomo che perdonò Paula Cooper».
Che cosa l’ha colpita di Bill Pelke?
«La richiesta era di raggiungerlo in Indiana. Voleva incontrarmi di persona. Non avevo ancora firmato il contratto per il libro ma ho preso ugualmente un aereo. Bill mi ha portato nella casa dove sua nonna era stata uccisa, mi ha fatto conoscere i membri della sua famiglia. È stato onesto con me, non voleva apparire come un santo solo perché aveva perdonato Paula. Si è aperto giorno dopo giorno: mi ha detto che nel periodo in cui la nonna era stata assassinata la sua vita era immersa nel caos. Non era interessato a nulla, solo alle donne. Il suo modo di raccontare mi ha ispirato fiducia, ho capito che era una fonte attendibile. Mi ha mostrato centinaia di lettere che si era scambiato con Paula, quando lei era nel braccio della morte. Mi aveva sorpreso scoprire quanto vulnerabile Bill apparisse in quella corrispondenza. Si era aperto totalmente a Paula. Era come se Paula fosse diventata il suo confessore».
Che cosa racconta dell’America il caso di Paula Cooper?
«Se si osserva il sistema penale americano si scopre che la componente razziale, il pregiudizio, hanno sempre un ruolo cruciale nel determinare un colpevole. Se la vittima di un omicidio è bianca, il colpevole riceverà un trattamento molto rigido. Il caso di Paula Cooper è cruciale nell’ambito dell’applicazione della giustizia nei confronti dei minori. Siamo nel 1985, Ronald Reagan è presidente. Il motto è: punire a tutti i costi i criminali. È il mantra americano. Tutti, dal pubblico ministero di una cittadina al politico che punta a essere rieletto, vogliono apparire intransigenti. Paula Cooper era solo una delinquente, la sua età un dettaglio, così come l’inferno che subì in famiglia. Oggi il sistema è cambiato, ma tantissimi minori sopportano ancora condanne pesanti, senza un piano per reinserirli nella società una volta liberi».
Se Paula Cooper fosse stata bianca, sarebbe stata condannata a morte?
«Il pubblico ministero del caso di Paula Cooper era stato eletto proprio durante il periodo della totale intransigenza verso il crimine. Doveva dimostrarsi irremovibile. Durante il suo mandato ha chiesto la pena di morte in 21 casi, riuscendo a fare condannare alla pena capitale 17 persone, un numero impressionante. Un anno dopo la condanna di Paula, un gruppo di ragazzini bianchi commise un omicidio simile. L’accusa optò subito per la pena capitale: non si voleva creare un precedente basato sul colore della pelle».
In Italia si è parlato molto di Cooper.
«Gli americani erano rimasti scioccati nello scoprire che in Italia c’era una mobilitazione. La stampa americana ha ignorato per molto tempo l’età di Paula per focalizzarsi solo sull’efferatezza del crimine. La stampa italiana ha sollevato invece il problema, chiedendosi perché l’America condannasse a morte un’adolescente. Il dibattito italiano ha fatto rimbalzare nuovamente il caso negli Stati Uniti. Se l’Italia non fosse stata così attiva, forse Paula Cooper non sarebbe stata salvata dalla sedia elettrica».
Tuttavia, nel 2015, due anni dopo essere stata rimessa in libertà, Paula Cooper si è tolta la vita, emettendo la sua sentenza di morte.
«Paula ha passato la maggior parte della sua esistenza in prigione. Una volta uscita, si è trovata ad affrontare il mondo di nuovo, senza uno scudo per proteggersi. È stato un salto enorme. La sua famiglia era la stessa di prima, niente era cambiato per lei. Non riusciva a perdonarsi quello che aveva fatto a Ruth Pelke, fino al punto di togliersi la vita».