La Stampa, 11 marzo 2024
De André canta De André
Cristiano De André pesa ogni parola, aspetta che sia quella giusta, sorride, indaga con lo sguardo ironico dove sia andata ad appoggiarsi. E poi sorride ancora. È alla vigilia di un nuovo tour, partirà il 13 luglio, e si chiamerà De André #DeAndré – Best Of Live Tour. Sul palco e con il pubblico, una nuova lettura delle canzoni del padre, che tra le sue dita e con la sua voce diventano una cosa nuova.È anche un modo per tenere, ancora un poco, vicino suo padre Fabrizio?«In ogni mio concerto sento mio padre vicino a me, e leggo nei suoi testi, ogni volta che li canto, sempre qualcosa di nuovo che mi era sfuggito, che va a definire meglio ogni suo concetto. Le parole di mio padre sono gocce luccicanti che ti cadono addosso come scosse da una bacchetta magica, ti avvolgono e ti illuminano, rendendoti una persona migliore. Non dobbiamo tenerle dentro di noi, facciamole uscire, mettiamole in pratica».È per tramandare ai giovani quelle parole che le porta con sé sul palco?«Vivo la sorpresa dei ragazzi che trovano qualcuno che li ispiri, che dia delle risposte alle loro domande, come fa la grande letteratura. Ma mio padre è letteratura. La sua poetica ha fatto breccia e continua a farla nei cuori di ogni generazione. Ci sono sempre più ragazzi giovani che, specialmente nel vuoto esistenziale di questo periodo storico, scoprono in ogni sua canzone, un modo più giusto di vivere, di comportarsi, trovano risposte alle loro domande, imparano a riconoscere il bene dal male, l’onestà dall’ipocrisia, la giustizia dalla scorrettezza».I valori espressi in certe canzoni, cambiano le persone?«Le ispirano, ma vorrei sottolineare che questo ancora non basta. Non basta sentire una comunanza di pensiero e dopo un concerto, quando si ritorna a casa, continuare la vita di sempre. Se si ama mio padre, bisogna anche mettere in pratica il suo pensiero. Dobbiamo compiere, ognuno nel suo piccolo, degli atti concreti, che possano modificare in meglio il nostro mondo».Fabrizio era conscio del ruolo della sua poesia?«Il suo più grande cruccio nell’ultimo periodo era proprio questo. Mi diceva: “Ho scritto contro le guerre, a favore dei più deboli, degli emarginati, e purtroppo mi rendo conto che non è servito a niente”. Gli rispondevo che non era vero, che era servito. Ma poi pensavo anche che tutto era rimasto dentro di noi, non era uscito, non era sceso in piazza, non era stato applicato».Le immagini dei ragazzini manganellati dalla Polizia a Pisa hanno fatto tornare indietro la lancetta del tempo a molti anni fa. E hanno fatto sembrare le parole di “Storia di un impiegato” scritte oggi, per quegli studenti aggrediti.«Sì, sembrano scritte oggi. Quando ho visto le immagini di Pisa mi è venuto da piangere. È stato davvero brutto, ho scritto subito: le divise danno i numeri, diamo i numeri alle divise. Codici identificativi immediatamente. Non è che tu puoi picchiare ragazzo inerme perché il corteo non è stato approvato. Ma quanti cortei ci sono nel mondo contro questo massacro di innocenti a cielo aperto, in questo silenzio assenso generale senza che la polizia manganelli chi protesta? È una vergogna, è uno schifo. Siamo sotto un regime che comincia ad avere quella puzza di totalitarismo».La democrazia è un antidoto?«La poesia è un antidoto. Se uno legge e riconosce quella bellezza non può più fare a meno di andarle dietro, di cercarla. Il problema è che ce la stanno togliendo con la banalizzazione dello studio nelle scuole, con la troppa semplificazione dell’informazione e della cultura. È un momento pericoloso perché stanno cercando di toglierci quello che è più importante per essere persone libere: il diritto di dire la nostra, il diritto di cercare la libertà».Lei ha raccontato che mentre suo padre scriveva la sua rivoluzione contro il potere costituito, lei viveva la sua ribellione contro il potere rappresentato dal padre. Come sono stati quegli anni?«Belli e tormentati, il rapporto con mio padre era altalenante, si faceva fatica ad intendersi. Una volta litigammo perché voleva portarmi a vivere e a studiare a Tempio Pausania e io scappai chiudendomi in bagno. Ma lui non era il tipo che si faceva bastare un no come risposta. Spaccò la porta del bagno a colpi di accetta, ma io ero già scappato dalla finestra. Poi mi raggiunse e mi portò in macchina verso casa sua. A metà strada inchiodò, e tra le lacrime mi chiese scusa. Quando arrivammo a casa sembravamo due animali selvatici, sconvolti, con rami e foglie tra i capelli lunghi e arruffati».Due personalità forti le vostre.«Essere figli di geni ti preclude la possibilità di mettere la faccia fuori di casa senza che qualcuno si senta in dovere di dirti: “eh ma tuo padre..”. Per me è stato molto doloroso all’inizio. Lui lo sapeva e cercava di evitarmi quel dolore. Spingeva perché facessi il veterinario. Io ho preferito soffrire di più e fare il musicista».Ha mai pensato a come sarebbe stata la sua vita se la musica e la poesia non fossero state così presenti e centrali?«Sarebbe stata una vita assai triste, perché la musica per me era tutto e sentivo di averla nel sangue, non mi sarei visto a fare nient’altro che il musicista. Era la mia vocazione. La poesia mi piaceva, la leggevo e soprattutto la respiravo tutti i giorni in casa, sarebbe stato assurdo fare un altro mestiere».Da dove è partito per riarrangiare i brani per questo tour?«Da un desiderio di mio padre durante il tour Anime Salve, dopo l’arrangiamento che feci di Le acciughe fanno il pallone: volle che partecipassi e arrangiassi insieme con Mark Harris, anche gli altri brani del tour del 1998. Durante quel tour mi chiese se avessi avuto voglia di mettere le mani anche su altri suoi brani, desiderava che lasciassi un mio tocco ad altre sue opere, per riproporle in seguito in un nuovo tour. Poi purtroppo come si sa, tutto precipitò e il progetto rimase in cantina per diversi anni. Anche io passai un periodo che mi fece allontanare dalle scene. A gennaio 2009 arrivò la proposta di Fabio Fazio di farmi cantare e suonare Creuza de mä assieme a Mauro Pagani dal porto antico di Genova, in una puntata di Che tempo che fa, accettai. L’idea degli album e dei tour nacque da lì. Pensai che sarebbe stata una bella medicina per la mia depressione, mi avrebbe aiutato, così accettai. Con la clausola però di non fare una semplice cover band delle sue canzoni ma di riproporle a modo mio, con nuovi arrangiamenti, come lui avrebbe voluto. Dalla collaborazione con Luciano Luisi vennero fuori rivisitazioni di brani come A Cimma, la versione punk de Il Pescatore, Se ti tagliassero a pezzetti, Fiume Sand Creek, Quello che non ho e così via. Facemmo un’audizione per trovare i musicisti del tour e scoprimmo dei talenti come Davide Pezzin e Davide de Vito. Osvaldo di Dio lo portai dentro io perché già lo conoscevo e sapevo della sua bravura. Gli album e i tour successivi hanno visto la firma anche di altri due grandi musicisti come Max Marcolini per il Volume 3 e Stefano Melone per Storia di un Impiegato».Ora questo lungo cammino la porta a un tour di “best of": come sarà strutturato il concerto?«Sarà un concerto con il meglio delle rivisitazioni musicali che ho realizzato sulle opere di mio padre. Racchiusi nei quattro album De Andrè canta De Andrè, a lui dedicati. I brani del concerto e la scaletta saranno scelti in modo da far prendere poco fiato al pubblico, sarà un susseguirsi di emozioni intense per tutti. Le sonorità del concerto passeranno dal rock, alla world, dall’etnico all’acustico, con momenti più intimi e classici, intervallati da racconti e aneddoti sulla sua vita e della mia vita con lui. Sarà il consolidamento e l’ampliamento del grande tour di esordio del 2009. Tra i musicisti tornerà Luciano Luisi alle tastiere, autore insieme a me degli arrangiamenti dei primi due album. Osvaldo di Dio alle chitarre, sarà come sempre un inseparabile compagno di viaggio, Davide Pezzin al basso. E poi ci sarà una novità, la new entry alla batteria del grande Ivano Zanotti».Durante il tour di “Anime salve” suo padre raccontò, emozionato, di essere molto orgoglioso di lei e della sua abilità di musicista. Vale per lei quel che suo padre diceva di sé: “Pensavo, è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”?»«Sì, per me è esattamente così, dove finisco io, inizia uno strumento: sono profondamente un musicista. E sono anche un amico fragile». —