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 2024  marzo 11 Lunedì calendario

Le due guerre di Biden e del Papa

La guerra è l’emergenza assoluta del nostro tempo, in Ucraina e in Medioriente. Su questo l’opinione pubblica concorda, ma solo su questo. L’interpretazione dell’emergenza, le sue cause e le responsabilità conseguenti, le misure da intraprendere per uscirne, dividono ormai verticalmente il nostro mondo, mettendo alla prova i valori in cui abbiamo sempre testimoniato di credere e su cui abbiamo costruito la nostra civiltà. Quei valori erano fragili, o semplicemente la guerra è più forte: ma è evidente che mentre il conflitto procede senza trovare una via d’uscita i nostri principi non sembrano più in grado di tenere insieme l’Occidente che li ha assunti come riferimento. Questo significa che stiamo entrando in una fase sconosciuta, senza una bussola ideale capace di guidare i nostri passi, con alle spalle una storia condivisa che ci ha portati fin qui, ma l’incognita davanti a noi perché non abbiamo più un codice civile e morale comune in cui credere. Per un capriccio del calendario le due diverse letture della crisi che dividono la nostra società hanno preso corpo davanti a noi a poche ore di distanza l’una dall’altra, impersonate da Papa Francesco e da Joe Biden. In un’intervista alla radiotelevisione svizzera Bergoglio ha indicato il negoziato come unica via d’uscita possibile per la guerra della Russia con l’Ucraina, esaltando la strada del dialogo tra le parti, da perseguire ad ogni costo. Nello slancio etico e umanitario di evitare altre vittime e altre sofferenze il Papa si è spinto a sottolineare che “è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è coraggiosa: quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa peggiori”. È la posizione tradizionale della Santa Sede, che ha offerto anche il suo ruolo di mediazione, per l’apertura di un dialogo diplomatico. 
Ma le parole di Bergoglio (“quando vedi che sei sconfitto”, “il coraggio della bandiera bianca”) sembrano ritagliate appositamente sul fronte ucraino della guerra e sulla figura di Zelensky, come se pesasse interamente su Kiev l’onere di una soluzione, col rischio di trasformarla così in una vera e propria resa: senza ingaggiare la Russia nello stesso sforzo d’iniziativa e di responsabilità, anzi azzerando ogni riferimento all’aggressione e all’invasione, come se la storia fosse condonata al Cremlino. Un appello accorato, dunque, che privilegia l’elemento umano sul politico, nell’affidamento totale alla provvidenza di una diplomazia onnipotente ma asimmetrica, quasi il Papa pensasse – senza però dirlo – che gli uomini di buona volontà siano oggi da una parte sola: sta alla loro coscienza lo sforzo generoso per ritrovare la pace, valore assoluto che per Francesco assorbe, supera e gerarchizza ogni altro principio ideale.
C’è invece tutto il senso tragico della storia (e dunque il dramma della politica) nel discorso del presidente americano Biden sullo stato dell’Unione. Per tre generazioni, in quasi novant’anni, non era risuonato nell’aula del Congresso un allarme così grave, da quando nel gennaio 1941 Franklin Roosevelt si era rivolto alla nazione segnalando “un momento senza precedenti nella storia”, con Hitler in marcia nella guerra in Europa per attaccare la libertà e la democrazia in tutto il mondo. “Stasera mi presento in questa stessa aula – ha detto Biden – per avvisare il Congresso e il popolo: è dai tempi del presidente Lincoln che la libertà e la democrazia non sono sotto attacco come oggi, sia a casa nostra sia all’estero. La Russia di Putin è in marcia, ha invaso l’Ucraina e non si fermerà. Non ci piegheremo. La storia ci sta guardando, come è avvenuto proprio qui tre anni fa, il 6 gennaio, quando gli insorti hanno preso d’assalto il Campidoglio e hanno pugnalato alla gola la democrazia americana. Non erano patrioti, volevano impedire il trasferimento pacifico del potere e ribaltare la volontà del popolo americano. Ma hanno fallito e la democrazia ha prevalso. Tuttavia la minaccia resta forte e la democrazia va difesa con i denti. Non si può amare il proprio Paese solo quando si vince. Chiedo a tutti, senza distinzione di partito, di difendere la democrazia contro tutte le minacce straniere ed interne”. La novità addirittura drammatica di questo richiamo alle responsabilità della politica è evidente. Biden coglie il filo che collega l’insurrezione eversiva e anti-costituzionale del populismo radicale di destra nell’America trumpiana, con la rottura dell’ordine mondiale, del diritto internazionale e della convivenza civile da parte dell’imperialismo reazionario di Putin. Ciò che affiora in contemporanea nelle due Superpotenze è la ripulsa della democrazia, delle sue regole, delle sue garanzie e dei suoi vincoli. Questa, dopo la denuncia del presidente americano, diventa la cifra che contrassegnerà la nostra epoca: la ribellione alla democrazia, che è anche una minaccia alla stessa sopravvivenza di una cultura liberale e dei suoi fondamentali nelle costituzioni, nelle istituzioni e nella società, vale a dire al costume civile che pratichiamo dal dopoguerra, al nostro modo di vivere quotidiano. Un punto in comune tra Biden e il Papa è la coscienza della gravità della crisi. Un’emergenza umanitaria per Francesco, che chiede agli uomini di aprire uno spazio negoziale di pace; un’emergenza politica per il presidente americano, che chiede agli Stati di difendere la democrazia occidentale, vero bersaglio della guerra in Europa.Questa separazione artificiale tra pace e democrazia è il risultato di una moderna ideologizzazione della guerra, e va rifiutata ad ogni costo: solo la democrazia può costruire una vera pace nella giustizia. Anzi, questo disincanto dell’Occidente per la libertà, comunque garantita in questa parte del mondo, fa da battistrada agli avversari congiunti della democrazia, è il loro alleato domestico clandestino: c’è dunque qualcosa da rifiutare e molto da difendere, prima di accettare la resa della democrazia.