Corriere della Sera, 11 marzo 2024
Intervista a Maurizio Vandelli
«L’Equipe 84 nasce dal desiderio di essere diversi da tutti gli altri. Nei primi anni Sessanta noi eravamo quattro amici che stavano seduti al bar Grand’Italia di Modena. Il nostro obiettivo minimo era quello di metterlo in quel posto al mondo. Il ruolo che il destino ci aveva riservato era quello di essere impiegato statale, postino, commerciante. Ma non era il futuro che volevamo. Non per noi. L’Equipe nasce dalla fusione dei componenti di due gruppi. Franco e io suonavamo ne “I giovani leoni”, nome tratto dal film con Marlon Brando, Victor e Alfio erano in gruppo con “Paolo e i gatti”. Decidemmo di metterci insieme e, seduti a quel bar, discutevamo del nome. Io volevo fosse al femminile, allora tutti si chiamavano I Corvi, i Profeti, i Ribelli... Avevo portato un extended play dell’Equipe Tahitienne. Ci piacque quel nome, ma l’Equipe di Modena non funzionava. Qualcuno propose di aggiungere un numero, per completare. Venne fuori l’84, con l’idea che forse ci avrebbero fatto fare la musica per lo Stock 84. E così iniziammo a suonare nelle balere di Modena. Finché non cominciammo la nostra prima tournée estera, a Rimini».
Maurizio Vandelli ha, difficile crederci, ottant’anni, ma è sempre uguale a come lo vedevamo in televisione o sulle copertine dei 45 giri dell’Equipe 84 che divoravamo come noccioline, uno dopo l’altro.
«Mio padre era un rappresentante di dolciumi, mia madre casalinga. Mi avevano regalato una fonovaligia Lesa, quella con il coperchio che diventava un amplificatore. Comprai i primi tre 45 giri: “Banana Boat” di Belafonte, “Only you” dei Platters e “Mi casa es tu casa” di tal Johnny D che poi scoprii essere Johnny Dorelli. Cominciai il liceo, ma non faceva per me. Passai a ragioneria, dalla quale mi sfilai appena in tempo per evitare il rischio di diventare ragioniere. La mia vita era la musica, nient’altro».
Chiedo a Maurizio di ricordare l’atmosfera di quei primi anni Sessanta, del modo in cui si viveva la stagione dei Beatles e dei capelli lunghi, al bar di Modena.
«Era straordinaria. Passavi per strada e sentivi musica uscire da ogni bar. I juke box erano la nostra colonna sonora, le ragazze ti sorridevano. Oggi c’è solo paura, diffidenza, volti scuri. Noi eravamo seduti al bar e sognavamo quello che poi, almeno a noi, è successo davvero. Ci divertivamo, eravamo indisciplinati. Ricordo che organizzammo uno scherzo a Victor che durò per mesi. Lo convincemmo che Bonvi, il disegnatore umoristico che faceva parte della nostra comitiva, era un licantropo. Ogni volta che c’era luna piena costringevamo Bonvi a restare a casa perché questo suonasse conferma a Victor. Dopo mesi lo portammo in un piccolo cimitero vicino a Modena dove avevamo attrezzato Bonvi con il ketchup. Lui apparve a un certo punto, tutto sporco di finto sangue, urlando disperato “...Non sto bene, sto cambiando, divento pericoloso”. Victor prese un fugone, cadde in una gessaia e al mattino dopo, tutto sporco di bianco, si presentò in Questura per denunciare Bonvi come licantropo acclarato».
C’è sempre un giorno, nella conquista del successo, in cui ci si accorge che qualcosa è davvero cambiato. Per l’Equipe 84 quel giorno fu a Madrid, non a Modena.
«Avevamo avuto successo con “Papà e Mammà” e un impresario ci aveva messo sotto contratto per due mesi nella capitale spagnola. Una sera però ci chiama il nostro discografico e ci dice che dovevamo rientrare di corsa perché era riuscito a infilarci in un grande evento al Vigorelli di Milano. Quando arrivammo nell’antistadio, vedemmo che c’erano centinaia di ragazzi. Pensavamo fossero lì per Gianni Morandi. Invece si schiacciarono sui finestrini, battevano con i pugni gridando i nostri nomi. Quel giorno ho capito che tutto, per noi, stava cambiando».
La formazione, al culmine del successo, conosce una piccola pausa perché Victor Sogliani, il bassista, viene chiamato sotto le armi. Allora quello della leva obbligatoria era, per chi non l’aveva legittimamente scelto, un incubo di diciotto mesi che aleggiava già sui giorni della maturità.
«Io mi presentai alla visita che non pesavo nulla, mi ero autodistrutto per non partire. Ricordo che mi ero messo la gelatina sui capelli perché mi ero convinto che i capelloni li mandavano quantomeno al fronte. La sfangai.
Alfio era troppo basso, Franco credo fosse figlio unico di madre vedova, che a quei tempi era considerato un bel colpo di culo. L’unico che finì in divisa fu Victor, che era enorme e in ottima salute. Fu solo una pausa e poi ripartimmo».
E fu un trionfo. «Io ho in mente te», «Bang bang», pregevoli cover di grandi pezzi stranieri. «Tutte le notti registravamo, sulle onde corte, Radio Lussemburgo per ascoltare i pezzi che ci piacevano e che la Rai non passava. Ma si prendeva male. Una volta per sbaglio facemmo una cover con il ritornello di un brano e la strofa di un altro. Incidemmo quelle cover di successo con la Ricordi dove ci avevano portato, chissà perché, Claudio Lippi e Wilma Goich. Per liberarci, la nostra casa discografica precedente ci obbligò ad andare a Sanremo con un disco pubblicato da loro. Noi per ripicca gli piazzammo sulla facciata B un durissimo pezzo di Guccini, “L’antisociale” per di più cantato da Victor. Guccini era uno di noi, anche lui stava al “Grand’Italia”. Ci propose Auschwitz ma io non mi vergogno a dire che non ero d’accordo a inciderlo. Nella mia filosofia, la musica è una medicina per il sorriso. Forse sbaglio, ma penso che serva non a piangere ma a ridere. Però era un pezzo bellissimo e il nostro produttore del tempo, Pier Farri, mi convinse dicendo che saremmo stati il primo gruppo a uscire da mamma, papà, amore e fiori. Aveva ragione lui».
Ma la storia dell’Equipe 84 sarebbe stata diversa e forse anche la sua se non ci fosse stato l’incontro tra questi quattro ragazzi e Lucio Battisti. Lui ha dato loro «29 Settembre», «Nel cuore e nell’anima», «È dall’amore che nasce l’uomo».
«Lui suonava a Sanremo in un gruppo che faceva le serate nel locale del casinò. Noi eravamo le attrazioni. Da quando sono entrato per le prove questo ragazzo, il chitarrista, mi ha tolto la vita. Voleva che sentissi le sue canzoni, diceva che ne scriveva di belle, che noi dovevamo inciderle. Non mi mollava. Alla fine ho ceduto e me ne ha fatte ascoltare una quarantina. Si capiva che c’era qualcosa di nuovo, confuso, ma nuovo. Lucio è stata una delle persone più simpatiche che mai abbia conosciuto nella mia vita. Al Cantagiro volle che lo accompagnassi, se la faceva sotto a esibirsi davanti a tutta quella gente. Sotto al palco mi torturò il braccio, poi salì e quando riscese mi disse “A Maurì, mo’ nun me ferma più nessuno...”. Aveva ragione, non lo ha fermato più nessuno.
A Sanremo ci siamo tornati poi con un altro Lucio, un altro genio. Ci fecero sentire 4/3/43 solo qualche giorno prima del Festival e io mi scrissi il testo ovunque, sulla mano, sulla chitarra e una strofa persino sulla scarpa destra».
Tutto sembrava andare bene per l’Equipe 84, ma poi arrivò l’arresto di Alfio Cantarella, il batterista. Fu uno scandalo che occupò le prime pagine.
«Sono sincero. Anche io fumavo canne, non poche. A casa mia venne anche Jimi Hendrix che si faceva delle cose che voleva farmi provare. Alfio aveva preso dell’hashish e qualcuno aveva fatto una spiata. Fu un casino. La Rai ci cancellò del tutto, non potevamo più apparire con il nostro nome. Io allora dissi che forse potevamo chiamarci “Nuova Equipe 84”,ma lo feci quasi più per provocare. Invece quelli abboccarono. Erano tempi di ridicolo moralismo. Ricordo che una volta al San Carlo di Napoli stavamo provando sul palco un brano intitolato “Sei già di un altro” che prevedeva delle voci in falsetto. Sentimmo il responsabile della Rai gridare: “Tirate giù dal palcoscenico questi quattro finocchi”. Erano anni così, muri e libertà».
Come finì l’Equipe 84?
«Dopo la galera Alfio non era ben accetto. Franco andò un anno in India. Io cominciai a fare dischi da solista. La storia era finita. Abbiamo provato più volte a farla ripartire ma non è, non può essere com’era. Né per noi, né per il pubblico. Poi loro, a uno a uno, se ne sono andati. E io sono qui. La morte non mi piace, cerco di esorcizzarla sforzandomi di trasformare tutto in leggerezza, in un sorriso. L’unico funerale al quale sono andato in vita mia è stato quello di Mia Martini ma ebbi una terribile crisi di pianto.
L’Equipe 84 non esiste più. È normale sia così. Ma la sua musica resiste, eccome, all’usura del tempo».