Corriere della Sera, 9 marzo 2024
Lo scatto (dovuto) dei leader
Per che cosa votarono un anno e mezzo fa gli elettori che determinarono il successo decisivo di FdI e quindi la vittoria della destra? Di certo non per Atreju, e neppure per la mitica sezione missina di Colle Oppio o per l’ancor più mitico Tolkien. Non votarono un passato insomma. Votarono per un futuro, ma soprattutto per Giorgia Meloni. In una sorta di anticipo di «premierato» votarono per una persona, credendo che quella persona fosse qualcosa di sostanzialmente diverso da tutto quanto detto sopra e – anche in ragione della sua età – capace di cambiare.
Di cambiare se stessa e insieme l’infinità di cose del nostro Paese che quegli elettori (più o meno come qualsiasi italiano di buon senso) pensavano andassero cambiate. Era in qualche modo la richiesta, magari inconsapevole, di una persona sola al comando? Sì, in qualche modo era questo. Ma non per farne un dittatore. Piuttosto per avere al governo una persona nuova, percepita come diversa, più in sintonia psicologicamente e per carattere con il sentire degli elettori; soprattutto capace di comandare e di essere obbedita.
In Italia crisi del Paese e crisi della democrazia sono tutt’uno. Ed entrambe hanno un’unica origine a due facce: da un lato una crisi degli apparati dello Stato i quali rispondono ai bisogni dei cittadini sempre meno e con sempre minore efficacia, e dall’altro una crisi del potere politico, il quale si rivela incapace di porre rimedio al disfunzionamento dell’Amministrazione essendo incapace di intervenire con l’autorità e le decisioni necessarie, in una parola di comandare e di farsi obbedire. Sì che ormai gli apparati dello Stato e la politica – perdute quelle che dovrebbero essere le loro funzioni, quelle per cui sono nati – si sono entrambi in un certo senso autonomizzati. Ormai lo Stato e la Politica sembrano esistere e operare sempre più per se stessi, obbedire innanzi tutto al proprio interesse.
La crisi del Paese e della democrazia italiana sono il prodotto di una tragica assenza di Stato e di Politica che si prolunga da anni. Sono il frutto di questo grande vuoto. L’ascesa elettorale di Giorgia Meloni ha corrisposto al desiderio di colmarlo. Non è il populismo: è il desiderio sacrosanto dei cittadini di vedere esaudite le proprie richieste e di trovare un vero leader. Per continuare ad esistere, infatti, la democrazia non deve dimenticare di essere il governo del popolo e per il popolo. Il popolo però ha bisogno di trovare chi lo rappresenti, chi sappia seguirne le indicazioni e interpretarne le necessità, e che poi abbia anche la capacità di comandare e di farsi obbedire dalla macchina amministrativa. Alla democrazia, insomma, servono governi forti: governi con il coraggio di assumersi la responsabilità di scegliere e di farsi obbedire per rispondere poi delle scelte fatte al corpo elettorale.
E qui per Giorgia Meloni le cose cominciano a farsi difficili. Che cosa bisogna pensare, infatti, di un governo che ad un anno e mezzo dall’insediamento non riesce a far avere un passaporto ai propri cittadini in due settimane anziché in sei mesi, o permette che uno che trova un taxi debba considerarsi quasi un miracolato?
È giusto distinguere, peraltro. Mentre il premier nella politica estera, a causa della specificità di un tale ambito, gode di molti vantaggi – ha una larga libertà d’azione, il suo ruolo e la sua impronta personale hanno un effetto immediato, la sua agenda è in gran parte un’agenda internazionale determinata dall’esterno, non ha il problema di farsi obbedire – negli affari interni, invece, le cose stanno assai diversamente. Qui serve affermare una leadership personale, mostrarsi capace di cogliere gli umori e le richieste del Paese, dare di sé un’immagine di concretezza e di prontezza nel decidere, ottenere che alla decisione corrispondano i fatti: e tutto ciò è molto più difficile. Non da ultimo perché la premier deve fare ogni giorno i conti con una coalizione tutt’altro che disposta a renderle la vita facile ma anzi, la Lega in specie, pronta a metterle i bastoni tra le ruote.
Solo in un modo, credo, Giorgia Meloni potrebbe uscire dall’angolo in cui si trova, dove, se non interviene qualche cambiamento, essa è costretta a veder il proprio consenso consumarsi implacabilmente tra una polemica idiota sul fascismo e una battuta più o meno felice su questo o quello. Solo in un modo, dicevo: se la sua leadership e quindi la sua personalità si innalza di una spanna su quella dei suoi alleati, se riesce ad apparire non già il presidente del Consiglio (un ruolo in Italia di nessun prestigio, assimilato nell’immaginario collettivo piuttosto a quello di un mediatore destinato dopo un po’ a levare il disturbo e scomparire nel nulla), bensì se riesce ad alzare una voce alta e forte rivolta al Paese. Naturalmente parlando com’ è d’obbligo farlo in una circostanza simile: cioè legando il passato al futuro, prescindendo dalla stretta attualità ma guardando lontano, additando le mete importanti ma non nascondendo i sacrifici necessari oggi; infine chiamando a raccolta le energie migliori ma senza chiedere giuramenti di fedeltà a nessuno. Insomma parlando come da quando la democrazia esiste parlano i leader che intendono lasciare un segno.