la Repubblica, 9 marzo 2024
Quando il digiuno è un’arte sacra
Con il primo avvistamento della luna nuova, inizia il Ramadan, il mese sacro dell’Islam che chiama i musulmani di ogni paese al digiuno e alla preghiera. Due miliardi di persone, quasi il 23% della popolazione mondiale, due milioni solo in Italia, si asterranno da cibo e bevande durante le ore diurne per trenta giorni consecutivi, fino al momento dell’Iftar, il pasto collettivo che si svolge dopo il tramonto, quando i seguaci del Profeta si mettono a tavola e mangiano in compagnia di parenti, amici e vicini. Il Ramadan, con il suo divieto di mangiare, bere, fumare, fare sesso è per i musulmani il momento più simbolico del calendario, visto che proprio in questo periodo dell’anno il Corano è stato rivelato a Maometto come «guida per gli uomini e prova di retta direzione e salvezza». Il rispetto del Ramadan è considerato uno dei cinque pilastri dell’Islam, cioè quei comandamenti che la religione del Profeta considera condizione indispensabile per potersi dire credenti. Ecco perché sono tenute a osservarlo le persone che abbiano superato la pubertà. A condizione, però, che siano sane e capaci di intendere e di volere. Anche le donne incinte sono escluse. Perché quello che Allah chiede è un vero e proprio consenso informato. In sostanza è un’assunzione di responsabilità religiosa che rinsalda il legame comunitario.
L’idea che sta dietro questa grande penitenza collettiva è che attraverso il sacrificio fisico ci si avvicina a Dio. E che l’osservanza della regola sia una forma di purificazione dell’anima attraverso il corpo, che ogni buon seguace di Maometto è tenuto a rispettare, senza cedimenti e senza infingimenti.Di fatto il Ramadan è uno degli ultimi digiuni religiosi che hanno resistito alla secolarizzazione, insieme allo Yom Kippur ebraico. A quel che resta della Quaresima cristiana. E all’Upvas induista, praticato da circa un miliardo e quattrocento milioni di indiani che digiunano dall’alba al tramonto alla vigilia delle feste degli dèi principali. E in più si astengono dal cibo due volte al mese, undici giorni dopo la luna calante e undici dopo quella crescente. Anche per gli induisti rinunciare al cibo serve a purificare il corpo per elevare l’anima. La parola Upvas che indica il digiuno significa, infatti, “sedere vicino a Dio”. Mentre il digiuno del Ramadan, detto Sawm, significa riposare.Siamo molto vicini al severo ascetismo dei Padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, San Clemente, che consideravano il digiuno periodico un mezzo per liberare il corpo dalla schiavitù del desiderio e purificare l’anima. Molti di loro usavano addirittura termini come filtrare, drenare. Come seeliminare proteine e carboidrati aiutasse a eliminare le tossine dello spirito.In effetti, se si toglie il riferimento al Signore – e fatti salvi il grande valore spirituale del rito e il significato del sacrificio per i fedeli – colpisce la somiglianza con quella liturgia del metabolismo, del drenaggio, assurta a precetto del fitness contemporaneo. In realtà, i tradizionali digiuni sacri, le astinenze devote, sembrano anticipare dei comportamenti alimentari che sono diventati altrettanti mantra della dietetica contemporanea come il digiuno intermittente. Una sorta di Ramadan laico, che fa milioni di proseliti incerca di purezza e leggerezza. E nonostante gli scienziati nutrano molti dubbi sui benefici di questa astinenza autoimposta, la regola del 16:8, cioè sedici ore a pancia vuota e una finestra di otto in cui si distribuiscono i pasti, assomiglia moltissimo all’alternanza tra digiuno diurno e pasto notturno del Ramadan. O alla scansione oraria dell’Upvas induista.In effetti esiste un minimo comun denominatore che lega l’ascetismo religioso tradizionale all’estremismo dietetico contemporaneo. Ed è l’aspirazione a un controllo assoluto del corpo e della mente, attraverso il cibo, o meglio la sua limitazione. La differenza èche una volta questo vivere di stenti era un comandamento sacro, oggi è una misura salutista. In un caso lo si fa per Dio, nell’altro per l’Io.Quel che è certo, è che il nostro mondo edonista e narcisista è caratterizzato da una tendenza sempre più diffusa e trasversale a trasformare i precetti delle religioni antiche e moderne in regole nutrizionali. In decaloghi del corpo e non più dell’anima. Perché abbiamo trasformato l’etica in dietetica. E spalmato Ramadan e Quaresima su tutto il calendario. È il contrappasso dell’opulenza che insieme all’egolatria, il culto dell’apparenza, detta gli articoli di fede di una purificazione che identifica il male con tossine e radicali liberi.Ma al di là delle somiglianze, la differenza c’è, eccome. Perché per gli induisti, o per i seguaci del Profeta, la privazione favorisce la contemplazione, libera dalla schiavitù del desiderio e schiude le porte della compassione e della carità. Un’idea non lontanissima da quella di Papa Benedetto XVI che, nel 2011, in occasione della Quaresima definì il digiuno un impegno ad astenersi dal male e vivere il Vangelo. Un modo per dire che non si vive di solo pane. Mentre le tribù alimentari contemporanee considerano lo stomaco vuoto un modo per resettare il corpo e farlo ripartire a tutto gas. Non a caso i guru della Silicon Valley, nuovi profeti del turbocapitalismo, si sono convertiti in massa al digiuno intermittente. In questo modo la privazione si smarca dalla religione. E fa dell’astinenza un cammino di salvezza terrena, una forma di ascetismo secolarizzato. Un decalogo del wellness. Fatto di precetti e fioretti. Che trasformano ancora una volta il cibo in un campo di battaglia tra il bene e il male. Tra salvezza e salute. Tra essere e benessere.