La Stampa, 9 marzo 2024
L’avanzata dei coloni
«Niente mi rende felice come vedere le bambine crescere sulla nostra terra. Costruire un posto che è nostro da millenni, che tornerà tutto nostro, perché è così che deve andare». Akiva Van Koningsveld è nato e cresciuto a L’Aia, ha studiato giornalismo e giurisprudenza a Utrecht e lì ha cominciato a lavorare nel Centro per l’informazione e la documentazione israeliana, un centro che promuove la diffusione dei valori della cultura ebraica. Ha visitato Israele varie volte, fino alla decisione nel 2020 di trasferirsi a Eli, un insediamento in Cisgiordania con Rachel, texana di Dallas, che ha sposato un anno dopo. Oggi hanno due figlie, vivono in una casa in affitto e ne hanno da poco comprata una, ancora su carta che fa parte dei progetti di espansione dell’insediamento.Il sito in cui Rachel racconta la decisione di trasferirsi in Israele si chiama: My Aliyah Story, la storia della mia Aliyah. La parola “aliyah” in ebraico significa ascesa, rappresenta l’immigrazione degli ebrei dalla diaspora alla Terra di Israele, ed è uno dei principi fondamentali del sionismo. «Siamo qui per mettere in pratica il nostro progetto sionista – dice Akiva –non era più sufficiente proteggere i nostri valori dall’estero. Come molti siamo arrivati qui per stabilirci per sempre». Per farlo hanno seguito la procedura, compilato una domanda, è stato assegnato loro un consulente-aliyah, hanno raccolto i documenti, affrontato i colloqui con lo Shaliach, il rappresentante dell’agenzia ebraica, hanno ricevuto un visto, prenotato il volo e messo su casa.Dall’inizio della guerra centinaia di “olim” come loro, i nuovi immigrati, si sono moltiplicati, soprattutto da Francia, Gran Bretagna, America e Canada. Solo nell’ultimo trimestre dell’anno più di quattromila nordamericani hanno presentato richiesta per le pratiche di arrivo, e inserimento lavorativo, secondo i dati dell’organizzazione Nefesh B’Nefesh, che assiste gli ebrei del Nord America nel fare l’aliyah in Israele, un aumento del 142% rispetto all’anno prima.Akiva non ha mai creduto nella soluzione dei due Stati, ci crede ancora meno dopo il 7 ottobre. Non crede nemmeno ai numeri dei massacri di Gaza e pensa che le vittime civili non siano civili, perché nella Striscia tutti sostengono Hamas, e le vittime collaterali sono il prezzo della vittoria.Il sostegno all’estrema destra di governo
Mal tollera anche le critiche ai ministri di estrema destra, come il ministro delle finanze Bezalel Smotrich, membro del partito di estrema destra Sionismo religioso, «perché è l’unico che dice quello che la gente pensa davvero, cioè che dobbiamo prendere ciò che è nostro, per questo siamo qui». Non è un caso che sia stato proprio Smotrich, pochi giorni fa, ad affermare che dei tre pilastri del sionismo «sicurezza, insediamenti e aliyah», l’ultimo sia stato troppo trascurato.Per questo, assieme al ministro dell’integrazione Ofir Sofer, ha annunciato un piano per fornire aiuti finanziari ai nuovi “olim” gettando le basi per «raddoppiare in poco tempo la popolazione dei coloni» in Cisgiordania. Un piano da 70 milioni di shekel (poco più di 19 milioni di dollari) per garantire una somma mensile per due anni per ogni immigrato che sceglie di vivere in «Giudea, Samaria, e oltre la Linea Verde».L’espansione degli insediamenti
Alla fine di febbraio, nella stazione di servizio all’ingresso dell’insediamento di Eli, un palestinese ha ucciso un rabbino e un ragazzo di 16 anni. È il secondo attacco mortale in meno di un anno vicino Eli e si aggiunge ai numeri già alti delle violenze e delle vittime in Cisgiordania, in aumento dopo il massacro del 7 ottobre. Attacchi palestinesi contro i coloni, e attacchi dei coloni nelle comunità palestinesi. Coloni oggi armati. Dopo l’attacco di Hamas era stato il ministro della Sicurezza Nazionale, Itamar Ben Gvir, ad annunciare la distribuzione di 10 mila fucili d’assalto nel Paese. Yossi Dagan, capo del Consiglio di Samaria, già alla fine di ottobre aveva dichiarato di aver raccolto «milioni di shekel» da donatori di tutto il mondo per distribuire armi alle «squadre di sicurezza civile nella regione di Samaria», nel nord della Cisgiordania.«È la nostra parte nella difesa degli insediamenti, così saremo parte integrante della vittoria dello Stato di Israele», aveva dichiarato durante la distribuzione dei primi 300 fucili. Anche Akiva ha un’arma e ne va fiero. Non è spaventato dalla possibilità di usarla, anzi pensa che la decisione di distribuire armi ai civili vada «ampliata in Giudea e Samaria» per rendere gli insediamenti avamposti della protezione di Tel Aviv, e di tutto lo Stato di Israele."Ha voluto Dio che gli ebrei si stabilissero qui"
Lo dice mentre cammina nella collina più alta di Eli, è lì nel 2020 ha sposato sua moglie Rachel. Da lì si vedono i quattro nuovi blocchi di palazzi in costruzione, nelle aree di espansione dell’insediamento, tutti intrapresi dopo il 7 ottobre. «È il nostro modo di dimostrare che siamo qui per restare e che più costruiamo sulla nostra terra più sapremo garantire sicurezza a tutto il Paese». Come molti qui disapprova la legge internazionale che giudica illegali le colonie e ne difende la legittimità. Non si sente insultato quando lo chiamano colono, perché «gli ebrei hanno ricevuto da Dio la chiamata a stabilirsi in Israele». I palestinesi dall’altra parte delle colline possono restare solo se accettano di vivere in uno Stato ebraico. L’unico problema dice, è che fino a quattro mesi fa «concedevamo loro di entrare a Eli per lavorare nelle costruzioni e oggi non li facciamo più entrare». Per questo i coloni stanno chiedendo al governo di facilitare l’ingresso di altri lavoratori dall’estero.Il 22 febbraio, poche ore dopo che tre uomini armati palestinesi avevano sparato contro le automobili in una strada vicino Ma’ale Adumim, Smotrich ha presentato un piano dei nuovi insediamenti. Smotrich ha dichiarato che solo nell’ultimo anno è stata approvata la costruzione di 18 mila nuove case negli insediamenti in Cisgiordania e sarà lui a presentare i piani per la costruzione di più di duemila unità a Ma’ale Adumim, a est di Gerusalemme, 300 a Keidar e 694 a Efrat che si andranno ad unire ai 160 insediamenti costruiti dai coloni dal 1967 in Cisgiordania e in cui, a oggi, vivono circa 700 mila persone. Per lui, come per gli altri esponenti politici che rappresentano i coloni, l’espansione degli insediamenti è uno dei mezzi per garantire la sicurezza dello Stato di Israele: «I nemici cercano di danneggiarci e indebolirci, ma noi continueremo a costruire e ad essere edificati in questa terra», è così che ha spiegato il nuovo piano di espansione dopo l’attacco a Ma’ale Adumim. Parole che hanno provocato l’ennesima presa di distanza dell’amministrazione americana, dopo le sanzioni contro i coloni responsabili di violenze verso i palestinesi. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha ribadito la «ferma opposizione degli Stati Uniti all’espansione degli insediamenti perché ciò non fa altro che indebolire e non rafforzare la sicurezza di Israele».I palestinesi fuori da Gaza
Gaza, nella visione dell’estrema destra sionista, è parte del progetto. Sono non solo sostenitori, ma i ministri a chiedere che i palestinesi lascino Gaza e che gli ebrei possano ricostruire gli insediamenti lasciati nel 2005.È passato poco più di un mese da quando a Gerusalemme si è svolta la «Conferenza per la vittoria di Israele». La tesi del meeting era che c’è solo una soluzione per garantire la sicurezza, cioè il ritorno degli ebrei «sia nella Striscia di Gaza sia in Giudea e Samaria» (Cisgiordania).Il piano è espellere la popolazione locale e ripristinare gli insediamenti. L’incontro ha avuto una larga eco non solo per la violenza delle esternazioni dei coloni presenti contro i civili a Gaza, ma anche perché ad essere ancora più infuocate erano le parole dei politici presenti: dieci ministri di quattro partiti – Likud, Sionismo Religioso, Otzma Yeduhit e Giudaismo della Torah Unita – e 27 parlamentari, cifra che corrisponde a un quarto del parlamento israeliano.«Solo il trasferimento della popolazione garantirà la pace» è stato uno degli slogan più ripetuti, assieme alle citazioni dal Libro dei Numeri: «Allora caccerai tutti gli abitanti del Paese», «Ma se non scaccerai gli abitanti del Paese davanti a te, allora quelli che lascerai restare... ti molesteranno nel Paese in cui dimori».Secondo Gayil Talshir, politologa dell’Università Ebraica di Gerusalemme, intervistata dal New Yorker «la destra ha dato ai versetti un’interpretazione letterale, cioè: se consenti ai tuoi nemici di restare al tuo fianco ti uccideranno, quindi i palestinesi devono essere uccisi in guerra oppure espulsi».In pratica il progetto di Smotrich, che nel 2017, nel suo «Piano Decisivo» scriveva: «Il modello dei “due Stati” ha portato Israele in un vicolo cieco. L’alternativa a ciò è una nuova disponibilità della società israeliana a vincere il conflitto, piuttosto che limitarsi a gestirlo – una vittoria fondata sulla consapevolezza che non c’è spazio in Terra d’Israele per due movimenti nazionali in conflitto». E ancora, sul destino dei palestinesi: «Coloro che scelgono di non abbandonare le proprie ambizioni nazionali riceveranno aiuti per emigrare in uno dei tanti Paesi in cui gli arabi realizzano le loro ambizioni nazionali, o verso qualsiasi altra destinazione nel mondo». Altrimenti detto: un avvertimento all’espulsione collettiva. Gli analisti sostengono che l’idea dei reinsediamenti a Gaza sia un’opinione minoritaria e un progetto dal risultato poco realizzabile. Lo stesso Netanyahu, che non può permettersi di perdere il sostegno diplomatico nella guerra e sa che gli Stati Uniti sono sempre più critici sull’espansione delle colonie in Cisgiordania e le esternazioni dei ministri di estrema destra, dopo il meeting di Gerusalemme ha scritto che «Israele non ha intenzione di occupare permanentemente Gaza o di sfollare la sua popolazione civile». I suoi ministri, però, continuano a incoraggiare lo sfollamento come parte della «giusta soluzione del conflitto».Una settimana fa cento coloni hanno assaltato il valico di Erez, al confine settentrionale con Gaza e oggi considerata «zona militare chiusa» dall’esercito israeliano. Una ventina di loro è riuscita ad avanzare qualche centinaio di metri, costruendo un avamposto come quelli che, in Cisgiordania, diventano preludio di nuovi grandi insediamenti. Dopo mezz’ora, un mezzo militare li ha riportati indietro tra gli applausi e le grida degli altri manifestanti «è la nostra terra», «i figli torneranno alla loro terra». Fanno parte dei gruppi che, con regolarità, raggiungono i valichi per manifestare contro l’accesso degli aiuti umanitari a Gaza."Prima lo Stato, poi i rapiti"
Erano lì anche due giorni fa. David, 18 anni, è arrivato in autobus dall’insediamento di Shilo, è un attivista del Forum Tikva l’alternativa di destra al principale gruppo che chiede il cessate il fuoco per la liberazione degli ostaggi. Loro, sionisti religiosi filo-governativi, sono di un’altra scuola. Prima lo Stato, poi i rapiti. Come a dire che non si possono anteporre i comprensibili desideri dei familiari di rivedere i loro cari ancora nelle mani di Hamas, alla sicurezza del Paese. Sicurezza che coincide con la continuazione della guerra fino alla vittoria totale.Sulla t-shirt di David è riportata la parola Tikva, che significa Speranza e che per lui, dice, ha molti significati. Il primo è distruggere Hamas. Il secondo è che gli ebrei tornino il prima possibile a riprendere la terra che gli spetta, cioè la Striscia di Gaza, perché «il popolo d’Israele appartiene alla Terra d’Israele». Per lui, come per gli altri sostenitori delle proteste, bloccare gli aiuti umanitari e reinsediarsi nei territori lasciati nel 2005 sono parte della stessa vittoria.Per lui, come per molti elettori israeliani, la decisione di evacuare 21 insediamenti e 9 mila civili, nel 2005, è un’ingiustizia storica a cui è necessario rimediare.Tzivka Mor, il fondatore del Forum ha un figlio rapito a Gaza, Eitan. Nemmeno lui ha dubbi: «Creare una crisi umanitaria nella Striscia è necessario», dice. Solo così sarà possibile costringere Hamas alla resa, attaccare Rafah più «velocemente, spingere i palestinesi verso l’Egitto o espellerli nei Paesi» che li sostengono e riprendere la terra. Ad ogni costo. Anche quello di considerare i propri cari, i propri figli persino, parte del prezzo della guerra. «La gente sente quello che pensiamo noi, è ora che il governo se ne faccia una ragione».